Il Commercialista Veneto n.238 (LUG/AGO 2017) - page 19

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NUMERO 238 - LUGLIO / AGOSTO 2017
IL COMMERCIALISTA VENETO
Il requisito della commercialità
nella disciplina PEX
in cui è ragionevolmente concreto il rischio che la cessione delle partecipa-
zioni sia strumentalizzata per realizzare un effetto economicamente (ancorché
non formalmente) equivalente al trasferimento della proprietà dei beni di
primo grado, evitando la tassazione sui plusvalori latenti di tali beni .
2.
Il riferimento all’attività commerciale esercitata dalla società
partecipata. L’esperienza delle holding
Sulla scorta di questa preliminare disamina, viene allora in rilievo la distin-
zione tra le attività commerciali
8
e le attività che si considerano di mero
godimento – inidonee a soddisfare il requisito di cui alla lettera d) – le quali
vengono spesso incluse in un insieme non precisamente definito in cui
vengono fatte convivere fattispecie nelle quali è evidente la
strumentalizzazione della forma societaria – in quanto i beni che compon-
gono il patrimonio societario sono concessi in uso a soci, amministratori o
familiari di questi – e fattispecie nelle quali si è in presenza di attività econo-
micamente rilevanti, che tuttavia non è detto che possano integrare l’eser-
cizio di imprese commerciali.
La questione si pone, prima di tutto, con riferimento alle
holding
, vale a dire alle
società il cui patrimonio è rappresentato interamente o prevalentemente da
partecipazioni.Al riguardo, il legislatore ha stabilito, al comma 5dell’art. 87, che
questa tipologia di società – allorquando l’attività esercitata consista nella
mera assunzione di partecipazioni – è sostanzialmente “trasparente” ai fini
della valutazione della commercialità, nel senso che la sussistenza del requisito
(al pari di quello della lett. c) va valutata in capo alle società partecipate.
L’esperienza delle
holding
, su cui si è formata un’importante giurisprudenza,
può offrire spunti utili per individuare i criteri cui attenersi per decidere della
commercialità di quelle società che sono proprietarie di
asset
(beni immobili o
beni mobili, materiali o immateriali), che sono ontologicamente idonei a pro-
durre frutti a prescindere dall’esercizio di un’impresa commerciale, e la cui
attività si concretizza nella percezione di c.d.
passive income
, cioè di proventi
derivanti dalla mera locazione o concessione in uso di detti
asset
.
Più precisamente, con riferimento alla natura imprenditoriale dell’attività di
detenzione di partecipazioni – in una controversia in materia di aiuti di
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Stato, avente ad oggetto la normativa italiana sulle fondazioni bancarie –
la Corte di Giustizia ha affermato che «il semplice possesso di partecipazio-
ni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economi-
ca del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà
luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o
socio nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti
della proprietà di un bene. Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipa-
zioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo parte-
cipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere
considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa control-
lata»
9
. Similmente, la Corte di Cassazione, sempre con riferimento alle fon-
dazioni bancarie, ha valorizzato l’esercizio di un’influenza sulla gestione
dell’impresa bancaria quale elemento necessario al fine di accertare se l’at-
tività di detenzione di partecipazioni presenti i connotati propri dell’eserci-
zio di un’impresa
10
. Tale conclusione, peraltro, è in linea con gli orienta-
menti della dottrina e della giurisprudenza commercialistiche
11
, i quali, pur
seguendo percorsi argomentativi diversi, convergono nel ritenere che l’eser-
cizio della funzione di direzione e coordinamento connoti in termini impren-
ditoriali l’attività della
holding
.
Ne dovrebbe allora conseguire che, pur non essendo possibile enucleare
una formula univoca e generalmente valida per risolvere il problema, sem-
bra in prima battuta da escludere la sistematica non commercialità delle
società qui considerate, ben potendo verificarsi che la gestione degli
asset
di proprietà non si limiti alla loro concessione in godimento, ma sia
contraddistinta da un
quid pluris,
idoneo a far riscontrare la commercialità
dell’attività esercitata
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, consistente nello svolgimento di attività – che
possono precedere, seguire o affiancarsi a quella di concessione in godi-
mento – quali, ad esempio, quelle di ricerca e sviluppo, marketing, gestione
finanziaria, supporto e valorizzazione dei beni, ecc..
Si dovrebbero, in sostanza, distinguere gli aspetti legati alla semplice deten-
zione di beni, alla loro conservazione e amministrazione statica, i quali con-
notano quelle attività (di mero godimento dei frutti civili) che, se poste in
essere da una persona fisica, non sarebbero sufficienti per classificare tra i
redditi d’impresa i relativi introiti
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, dagli aspetti legati alla gestione in senso
dinamico, allo sfruttamento dei beni nell’ambito di un’attività più ampia e
complessa che si proietta all’esterno nell’interazione con soggetti terzi e che
presuppone l’esistenza di una struttura imprenditoriale organizzata
14
.
Solo per le attività del primo gruppo, infatti, mi sembra sia plausibile l’ipo
[8] Nell’ambito dell’art. 87, il richiamo all’«impresa commerciale» deve intendersi riferito alle «attività commerciali» indicate dai primi due commi dell’art. 55, e dunque ad
un novero di attività, più ampio rispetto a quello delle imprese considerate commerciali ai fini privatistici, nel quale rientrano le attività di produzione e di scambio di beni e di
servizi, esercitate per professione abituale, e quelle dirette alla prestazione di servizi, esercitate tramite un’organizzazione in forma d’impresa, oltre alle attività agricole e a quelle
di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, ecc. Sicché è ragionevole sostenere che il requisito della lett. d) abbia un ambito di applicazione alquanto esteso, che si caratterizza,
da un lato, per la tipologia delle attività esercitate e, dall’altro lato, per la modalità di svolgimento di tali attività, la quale si ritiene non possa prescindere dall’esistenza di una
struttura organizzativa, essendo questa considerata come connaturale al profilo della commercialità, anche se, per le attività elencate nell’art. 2195 cod. civ. il legislatore
tributario non richiede che essa si esteriorizzi come un’organizzazione «in forma d’impresa». Nell’area delimitata dalla lett. d) possono dunque essere fatte rientrare tutte le
attività che si connotano per la combinazione di fattori produttivi in funzione della produzione o dello scambio di beni ovvero della produzione o della prestazione di servizi,
anche a prescindere dalla circostanza che tali attività siano interessate dalla presenza di periodi di sospensione i quali, se rientranti nella fisiologica modalità di svolgimento, non
sono incompatibili con i requisiti della professione abituale e dell’organizzazione. Allo stesso modo, possono annoverarsi tra le attività di cui alla lett. d) anche quelle consistenti
in un unico affare, laddove questo si articoli in una serie di operazioni tra loro coordinate in più fasi realizzative, ed anche le attività preparatorie, dirette a costituire la struttura
aziendale necessaria all’esercizio dell’impresa (vd. VIOTTO A., Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, cit., pag. 324 ss.)
[9] Vd. sent. 10 gennaio 2006, causa Cassa di Risparmio di Firenze SpA, C-222/04. Ed ancora, nella sentenza 14 novembre 2000, causa Floridienne SA, Berginvest SA, C-142/
1999, nell'ambito di un giudizio riferito all'imposta sul valore aggiunto, la Corte di Giustizia ha statuito che «una società capogruppo, il cui unico scopo sia la partecipazione
presso altre imprese, senza che tale società interferisca in modo diretto o indiretto nella gestione delle stesse, non ha la qualità di soggetto passivo dell’IVA …Tale conclusione
si fonda in particolare sulla constatazione che la mera partecipazione finanziaria in altre imprese non costituisce un’attività economica ai sensi della sesta direttiva … ciò non
vale qualora la partecipazione sia accompagnata da un’interferenza diretta o indiretta nella gestione delle imprese in cui è realizzato l’acquisito delle partecipazioni». Donde la
conclusione che «affinché l’attività di una holding consistente nel mettere un capitale a disposizione delle sue consociate possa essere considerata di per sé un’attività economica,
consistente nello sfruttamento di detto capitale per ricavarne introiti aventi carattere permanente sotto forma di interessi, occorre che tale attività non sia esercitata soltanto
a titolo occasionale e che non si limiti alla gestione di un portafoglio di investimenti alla guisa di un investitore privato ... ma che sia effettuata nell’ambito di un obiettivo
imprenditoriale o ad un fine commerciale, contraddistinto in particolare dall’intento di garantire la redditività dei capitali investiti».
[10] Vd. Cass., sez. un., sent. 22 gennaio 2009, n. 1576 e sent. 22 gennaio 2009, n. 1593, nelle quali i supremi giudici sono pervenuti alle conclusioni sopra indicate dopo aver
ripercorso l’annosa vicenda normativa e giurisprudenziale che ha riguardato le fondazioni di origine bancaria.
[11] Sul punto vd. MUCCIARELLI G., Profili dell’oggetto sociale nelle società di capitali, in Abbadessa P. e Portale G.B. (diretto da),
Il nuovo diritto delle società,
Torino, 2006,
p. 323 s.; e VALZER A.,
Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto
, in Abbadessa P. e Portale G.B. (diretto da),
Il nuovo diritto delle società,
cit., p. 852.
[12] L’Agenzia delle entrate, nella risoluzione 25 novembre 2005, n. 163/E, affrontando il caso di una società che concedeva in affitto la propria azienda, ha ritenuto che,
sebbene l'azienda locata fosse commerciale, la sola conduttrice ponesse in essere un'attività d'impresa, mentre la società locatrice si limitasse ad effettuare un'attività che, essendo
rappresentata dalla «mera gestione del contratto di affitto dell'azienda», non configurerebbe l'esercizio di un'impresa commerciale. Similmente, vd. la risoluzione 25 novembre
2005, n. 165/E, riferita alle attività poste in essere da un «assuntore, concernenti la mera gestione del debito in base alla proposta concordataria, l'individuazione dei
creditori ed il pagamento dei rispettivi crediti». Meno netta la risoluzione 18 agosto 2009, n. 226/E, che ha affrontato il problema della configurazione – commerciale o meno
– di una società che si occupava della gestione di un marchio. In quest'ultima risoluzione, l'Agenzia ha ritenuto che non può escludersi a priori la commercialità di una simile
attività, ma ha ribadito che non possono accedere al regime di esenzione le strutture che si configurano come «società senza impresa, circostanza che ricorrerebbe nel caso in
cui la società stessa risulti meramente intestataria di “passive income” riconducibili alla percezione di royalty su marchi».
[13] Pensiamo alla persona fisica che sia proprietaria di immobili – anche molti – la quale si limiti a concederli in locazione e a sostenere le spese di manutenzione: tale persona
produce redditi fondiari; come pure pensiamo a quella persona che sia titolare di uno o più brevetti o marchi, la quale si limiti a concederli in sfruttamento a terzi, dopo averli
registrati, anche sostenendo le spese connesse alla tutela legale da eventuali contraffazioni ecc., la quale produce redditi che il legislatore annovera tra quelli di lavoro autonomo.
[14] Si potrebbero, a tal fine, recuperare anche i risultati cui è pervenuta la dottrina nell'ambito della valutazione della commercialità delle attività svolte dalle società partecipate
rispetto alle disposizioni in materia di controlled foreign companies, dal momento che il requisito descritto dalla lett. d) dell’art. 87 ricorda quello richiesto dall’art. 167, comma
5, lett. a), consistente nell’esercizio, da parte della controllata, di una «effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello stato o
territorio di insediamento», il quale è stato declinato dal decreto di attuazione (D.M. n. 429/2001) nella detenzione di una «una struttura organizzativa idonea allo svolgimento
della citata attività oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione». In argomento vd. LUPI R.,
Principi generali in tema di CFC, e radicamento territoriale delle
imprese
, in Rass. Trib. 2000, 1730 s. (il quale propone un’interpretazione sostanzialistica del dettato normativo, che riferisce la locuzione «attività commerciale o industriale
effettiva» a «qualunque attività che sia radicata al territorio, in base ad esempio: i) all'esistenza di impianti industriali o attrezzature tecniche ovvero ii) in base all'esistenza di
una clientela "locale"»); BAGAROTTO E.M.,
La compatibilità con l’ordinamento comunitario della disciplina in materia di controlled foreign companies alla luce delle
modifiche apportate dal «decreto anti-crisi»
, in Giust. Trib., 2010, p. 22 (il quale, affrontando la delicata questione della possibilità di configurare un’attività economica
effettiva in presenza di passive income, evidenzia che, dall’analisi della giurisprudenza comunitaria e nazionale, sembra emergere che a tale dubbio possa essere data soluzione
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