Il Commercialista Veneto n.232 (LUG/AGO 2016) - page 29

NUMERO 232 - LUGLIO / AGOSTO 2016
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IL COMMERCIALISTA VENETO
Alessandro Solidoro
Le scelte del legislatore del 1942
Anteriormente all’entrata in vigore del vigente codice civile il contratto di società
era disciplinato dal codice civile del 1865, mentre le società commerciali erano prese
in considerazione dal codice di commercio del 1882. L’art. 1697 del codice civile del
1865 definiva il contratto di società nel modo seguente:
“La società è un contratto,
col quale due o più persone convengono di mettere qualche cosa in comunione, al
fine di dividere il guadagno che ne potrà derivare”.
Si nota subito come la definizione sia assai simile a quella contenuta nell’attuale art.
2247 c.c., secondo il quale
“con il contratto di società due o più persone conferisco-
no beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di
dividerne gli utili”.
Sono identiche le previsioni sulla pluralità dei soci, sulla messa
in comunione di beni (conferimento) e sul perseguimento di un fine di lucro. L’unica
differenza risiede nella previsione di un’attività economica contenuta nella sola
norma del 1942. La circostanza che anteriormente all’entrata in vigore dell’attuale
codice civile non fosse richiesto alle società civili di esercitare un’attività economica
ha generato in alcuni il convincimento che le società disciplinate dal codice civile del
1865 fossero in realtà una sorta di comunioni di godimento alle quali fosse inibito
esercitare un’attività economica.
Tale convincimento sarebbe avvalorato dalla disposizione contenuta nell’art. 76 del
codice di commercio che consentiva alle sole società da esso disciplinate di avere
“per oggetto uno o più atti di commercio …”.
Il legislatore del 1942 avrebbe dunque soppresso il modello della società civile
(sovrapponibile a quello della comunione di godimento) e conservato quello della
società commerciale, estendendolo alle attività economiche non commerciali attra-
verso l’introduzione del nuovo tipo della società semplice.
Un simile convincimento non può essere in alcun modo condiviso, in quanto non è
assolutamente vero che le società civili fossero una sorta di comunione di godimen-
to, incapaci di esercitare attività economica.
L’art. 1706 del codice civile del 1865 prevedeva infatti che
è “parimenti società
particolare
(ovvero un tipo di società civile, che si distinguevano in “società uni-
versali” e “società particolari”)
il contratto con cui più persone si associano per un
impresa determinata, o per l’esercizio di qualche mestiere o professione”.
La società civile era dunque ben lontana dalla semplice comunione di godimento, la
stessa poteva essere utilizzata per l’esercizio di qualsiasi impresa non commercia-
le, come anche per l’esercizio di un mestiere o di una professione.
La riforma del 1942 non era dunque volta a sopprimere il modello della società
civile in quanto riferito ad una società incapace di svolgere attività economiche, ma,
piuttosto, a conservarlo e rilanciarlo nelle forme della società semplice. In realtà, ciò
che premeva al legislatore del 1942 era eliminare ogni equivoco o punto di contatto
tra il contratto di società e la comunione di godimento, restituendo al primo la sua
piena valenza di negozio giuridico fonte di obbligazioni volontarie per le parti, e alla
seconda la sua natura di situazione di fatto non negoziale, disciplinata dalla legge.
Con il vigente codice civile si è inoltre voluta racchiudere la disciplina del contratto
di società in un unico Titolo (il quinto del Libro quinto), superando ogni distinzione
tra società civili e società commerciali. Ciò risulta con particolare chiarezza nella
relazione ministeriale al Re sul codice civile del 1942, nella quale si precisa che:
“Come nel libro delle obbligazioni sono stati rifusi in un sistema unitario i contratti
civili e commerciali, così nella nuova disciplina delle società risultano coordinate
in un sistema unitario le diverse figure di società, eliminando quella soluzione di
continuità che sino a oggi esisteva tra società civili e società commerciali.”.
Questo passaggio della relazione è particolarmente importante, poiché evidenzia
come il legislatore del 1942 non intendesse abrogare la società civile e conservare la
società commerciale, quanto, piuttosto, dettare una disciplina unitaria per entrambi
i modelli, racchiudendoli in un unico contratto.
Ciò che soprattutto premeva era riconoscere una autonoma soggettività a tutti i tipi
di società, rilevato che, continua la relazione al Re, la società civile
“è un contratto
che produce soltanto un vincolo obbligatorio tra i contraenti: il legame sociale
interno è irrilevante nei confronti dei terzi e non altera la condizione giuridica dei
soci, come titolari dei beni, come contraenti e come parti in giudizio. Sono i soci in
nome proprio che agiscono, che acquistano diritti assumono obbligazioni rispon-
dendo con il loro patrimonio … Solo per le società di commercio esiste un’autono-
mia patrimoniale, come riflesso della personalità giuridica ad esse riconosciuta”.
L’attività di gestione dei beni quale oggetto di una qualunque società
Come detto nel paragrafo precedente, con l’entrata in vigore dell’attuale codice
civile le società possono svolgere solo attività economiche, normalmente ma non
necessariamente d’impresa, e non più quelle di mero godimento dei beni.
Su questo punto la relazione ministeriale al Re appare particolarmente chiara,
evidenziando come:
“Nel sistema del nuovo codice la società è una forma di eser-
cizio collettivo di attività economica produttiva e normalmente
(dunque non esclu-
sivamente)
di un’attività economica organizzata durevolmente ad impresa. E’ que-
sta la base essenziale di tutta la disciplina, la quale si ripercuote in ogni suo aspetto
e ne giustifica le innovazioni. Tale concetto è enunciato chiaramente dall’art. 2247,
che pone come oggetto della società l’esercizio in comune di un’attività economica;
ribadito nel successivo articolo 2248 che esclude dalla disciplina della società le
forme di godimento collettivo di beni; risulta dalla stessa collocazione della disci-
plina della società nel libro del lavoro.
Sono dunque escluse dal novero delle società le forme di godimento collettivo di
beni, così particolari come universali, e l’accento logico della disciplina della società
si sposta dal momento negoziale a quello organizzativo.”.
Da quanto sopra si trae ulteriore conferma di come il codice civile del 1942 non
volesse sopprimere le società civili, ma volesse semplicemente limitarne l’utilizzo
all’esercizio in comune di attività economiche non commerciali.
È per tale motivo che, accanto alle tradizionali società commerciali, è stato intro-
dotto il tipo della società semplice, naturale evoluzione della società civile.
Su questo aspetto il paragrafo 927 della relazione ministeriale spiega come
“accan-
to alla società in nome collettivo e in accomandita semplice, derivanti dalla tradi-
zione commercialistica italiana, viene prevista e regolata la società semplice. E
questo è un tipo di società, riservato alle attività non commerciali, che non ha
caratteristiche positive proprie e sostituisce la società civile del codice del 1865,
come tipo più elementare di società.”.
Nel paragrafo 931 si prosegue precisando che lo specifico campo di applicazione
della società semplice
“è quello delle attività non commerciali cioè soprattutto
(dunque, non esclusivamente)
delle attività agrarie.”.
L’esposta volontà riformista del legislatore del 1942 è stata tradotta nei principi
codificati dagli artt. 2247, 2248 e 2249 c.c.
La prima disposizione è particolarmente importante, in quanto definisce il contrat-
to di società come il contratto attraverso il quale “
due o più persone conferiscono
beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di
dividerne gli utili”.
L’importanza della disposizione risiede nel fatto che l’art. 2247
c.c. non richiede espressamente alle società di svolgere attività d’impresa (commer-
ciale o meno), ma si limita a prevedere che le stesse debbano svolgere un’attività
economica allo scopo di dividere gli utili. Si ricorda che perché sussista un’impresa
è necessario, ai sensi dell’art. 2082 c.c., non solo che sia svolta un’attività economi-
ca, ma anche che questa sia esercitata “professionalmente” e in maniera “organizza-
ta”, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
L’art. 2247 c.c., non richiedendo alle società di svolgere attività di impresa, ha dato
quindi attuazione alla volontà del legislatore, espressa nella relazione al Re, di
raggruppare in un unico modello le previgenti società civili e commerciali,
ridefinendone gli specifici ambiti di operatività. Il successivo art. 2248, dispone poi
che
“la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una più
cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III”
(art. 1100 e ss.).
L’art. 2249, commi 1 e 2, aggiunge che
“le società che hanno per oggetto l’esercizio
di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi
III e seguenti di questo titolo. Le società che hanno per oggetto l’esercizio di
un’attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, a meno
che i soci non abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi
regolati nei capi III e seguenti di questo titolo”.
Con queste ultime due disposizioni si completa il quadro della riforma del sistema
delle società voluta dal legislatore del 1942, escludendo dal novero delle società le
comunioni di godimento, ma facendovi rientrare quelle aventi ad oggetto la gestione
di un’attività economica non commerciale.
A questo punto si pone il problema di individuare quale sia il confine tra le comu-
nioni di godimento e quelle finalizzate all’esercizio di un’attività economica (com-
merciale o meno), al fine di comprendere quali attività di gestione di beni comuni
possano essere oggetto di una società e quali no.
Sotto questo profilo, può ritenersi che la gestione in comune di beni rientri nella
fattispecie della comunione di godimento (fattispecie non negoziale) laddove i
comproprietari non abbiano inteso derogare alle regole organizzative disposte dagli
artt. 1100 e ss. c.c., in particolare a quelle sul:
1) diritto ad usare personalmente i beni comuni (1102 c.c.),
2) diritto a cedere o ipotecare la propria quota sui beni comuni (1103 c.c.);
3) potere di amministrazione (1105 c.c.).
Qualora, invece, i comproprietari abbiano inteso destinare, con un vincolo giuridi-
camente rilevante (di natura contrattuale), i beni comuni all’esercizio di un’attività
economica allo scopo di dividerne gli utili, con ciò sottraendoli alla disponibilità dei
singoli, non può che sussistere una società.
Tale società potrà rivestire anche la forma della società semplice, ove la gestione dei
beni sociali non integri un’attività commerciale, mentre potrà essere costituita solo
nelle forme previste dai capi III e seguenti del titolo V del libro V del codice civile,
nel caso contrario. Aquanto sopra consegue che l’attività di “gestione di beni”, con
i limiti esposti, può legittimamente costituire l’oggetto tanto di una società sempli-
ce quanto di una società commerciale. Nel caso in cui venga dedotta in un contratto
sociale senza limiti, la stessa si intenderà comunque limitata in via interpretativa, ai
sensi dell’art. 1369 c.c., alle sole attività economiche di gestione di beni consentite
al tipo di società in cui è contemplata.
L’orientamento del settembre 2016 approvato dalla Commissione Società dei No-
tai del Triveneto che affronta la questione è il seguente:
G.A.10 – (ATTIVITA’ DI GESTIONE DI BENI QUALE OGGETTO SOCIALE
– 1° pubbl. 9/16)
Con riferimento all’oggetto di una società, l’espressione “attività di gestione di
beni” (mobili o immobili) è ambigua, priva di un significato tecnico/giuridico, e
spesso utilizzata nella pratica in maniera promiscua per individuare attività tra loro
assai diverse. In concreto, infatti, la gestione di beni può essere svolta da più
persone in maniera tale da integrare:
a) un’attività commerciale;
b) un’attività non commerciale, ma comunque economica e finalizzata a conseguire
un utile;
c) una mera comunione di godimento.
Nell’ipotesi sub a), l’attività di gestione di beni può costituire l’oggetto sociale solo
di società costituite secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti del titolo V
del libro V del codice civile; nell’ipotesi sub b), può costituire l’oggetto sociale
anche di una società semplice (vedi orientamento O.A.11); infine, nell’ipotesi sub
c), non può costituire l’oggetto di alcuna società.
La gestione di beni:
a) integra un’attività commerciale, ove sia esercitata in maniera economica e con
caratteristiche industriali (art. 2195, comma 1, n. 1, c.c.), cioè con modalità più o
meno complesse che comunque presuppongano l’utilizzo e il coordinamento di
uno o più mezzi della produzione (si pensi ad una società di autonoleggio o ad una
società di locazione di appartamenti-vacanze);
b) integra un’attività economica non commerciale, ove sia svolta senza necessità di
coordinamento dei mezzi della produzione, in assenza di qualsiasi organizzazione
di tipo industriale, al fine vincolante di ricavarne un utile e con esclusione della
possibilità per i soci di utilizzare direttamente i beni sociali (è il caso di una società
L'attività di gestione di beni
quale oggetto sociale
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