Il Commercialista Veneto n.232 (LUG/AGO 2016) - page 35

NUMERO 232 - LUGLIO / AGOSTO 2016
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IL COMMERCIALISTA VENETO
L
A
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OCHA
DE
L
EON
Domande, riflessioni , dialoghi
La moneta,
dalla pecora all'Euro
I
n principio era la pecora. Nelle
civiltà pastorali le pecore erano
la misura della ricchezza di un
individuo. Non per niente a noi
è rimasto il termine “peculio” da
pecus
, pecora in latino, per indicare
una somma di denaro o di beni. La
pecora era una specie di “tallone”
nei baratti.
Poi, tale “campione” si trasferì alle
pelli di pecora con le quali si confe-
zionavano gli indumenti, che diven-
nero una vera e propria “moneta”
del tempo. Gli archeologi subacquei
tirano sù dai relitti antichi affondati
nel Mar Mediterraneo delle piastre
di bronzo in forma di pelle di peco-
ra, le prime “monete” dell’antichità.
Queste “monete” avevano una ca-
ratteristica conservata nella mone-
ta attuale; quella di essere accettate
dappertutto negli scambi, che era la
condizione prima dell’impiego di
esse e che faceva sì che i mercanti
antichi le portassero sulle loro navi.
Il valore delle monete, che nei seco-
li passarono dal bronzo ad essere
d’argento, d’oro e di rame, era du-
plice: uno era il valore che veniva
dato alla moneta dei vari luoghi e
che variava da luogo a luogo e il
secondo il valore intrinseco del me-
tallo contenuto, perché le monete
metalliche potevano essere fuse per
creare oggetti, monili eccetera. Il po-
tere statale non tardò ad assicurarsi
il monopolio della monetazione. Na-
turalmente, la moneta era tanto più
accetta quanto più alta era la serietà
e la notorietà di chi la coniava.
Poi i Cinesi inventarono i “biglietti
di Stato”. Questo richiedeva che
l’arte della stampa vi fosse svilup-
pata. Il potere si impegnava a scam-
biare il pezzetto di carta che emette-
va contro la quantità di metallo pre-
zioso indicata su di esso. Un siste-
ma che arrivò sino al secolo scorso.
Limitandoci al nostro Paese, la lira
post-unitaria
prevedeva
la
convertibilità dei biglietti in monete
d’ oro: possibilità presto abbando-
nata. Rimase una monetazione in
metalli “vili” per le monete
frazionarie ed i valori più bassi.
Nacque il nostro termine “biglietto
di banca” o “banconota” in quanto
vennero autorizzate alcune banche
primarie ad emettere questi “bigliet-
ti” ad accettazione obbligatoria, fa-
coltà che lo Stato incamerò succes-
sivamente, affidando il monopolio
dell’emissione dei “biglietti di Stato
a corso legale” alla Zecca di Stato,
naturalmente con circolazione ed
accettazione obbligatorie. Sui bi-
glietti era stampata la minaccia di
punizioni per i fabbricanti e gli spac-
ciatori di biglietti falsi. C’era sempre
un collegamento dei biglietti emes-
si con le riserve auree dello stato
che in tempi moderni sparì. Gli eco-
nomisti dicono che attualmente la
valutazione internazionale di una
moneta deriva dalla bontà dell’eco-
nomia del suo emittente.
Nel breve e sciagurato periodo del se-
condo dopoguerra, le am-lire degli al-
leati che scardinarono quello che re-
stava dell’economia non ebbero nep-
pure il pudore di coprire che erano solo
degli stracci di carta senza alcuna base
di riserve, con i quali gli occupanti
invadevano il nostro mercato.
Le caratteristiche della moneta nel-
l’Italia repubblicana non cambiaro-
no rispetto a quelle degli anni prece-
denti alla guerra; naturalmente con
valori che si adeguavano alla terribi-
le inflazione capitata nel frattempo.
E arriviamo all’euro, che sta facen-
do danni più grandi delle am-lire, le
quali durarono un periodo relativa-
mente breve. Anche l’euro ha un
corso forzoso e presenta caratteri-
stiche delle vecchie am-lire: la brut-
tezza delle sue banconote - la carta
è molto migliore ma non
infalsificabile; è totalmente sgancia-
to da qualsiasi riserva metallica;
nessuna minaccia ai contraffattori;
virtuale anonimità dell’emittente;
solamente la firma (ora) di Mario
Draghi in un angolo senza indica-
zione alcuna; degli ologrammi che
non salvano dalle falsificazioni; in
un angolino la “c” del copyright,
come se si trattasse di un disco o di
un libro. Se non fosse maledetta-
mente serio, potremmo prenderlo
per un biglietto del Monopoli. Ma,
a parte l’aspetto fisico, rimangono
gli effetti deleteri. Anzitutto l’assur-
do cambio impostoci con la violen-
za di Brenno – ancora una volta -
che ha distrutto la nostra classe
media; quindi la camicia di Nesso
del valore bloccato in un mondo che
manovra i tassi di interesse e la po-
litica monetaria secondo convenien-
za. Una situazione che continuerà a
peggiorare.
Peraltro, l’economia autoproduce
gli anticorpi alle sue malattie. Tali
sono da considerare le “monete
complementari” che sono nate qua
e là. In Baviera c’è il
kingauer c
he
ha la caratteristica di venire svalu-
tato nel tempo per aumentare la sua
velocità di circolazione. E’ noto do-
vunque il
bitcoin.
In Italia sono sorti come monete
complementari il
sardex,
lo
scec,
il
liberex,
il
crevit
ed altri. Sono mo-
nete private la cui circolazione in
certo modo si affianca a quella sta-
tale, che hanno la caratteristica di
venire accettate in reti particolari di
sottoscrittori e in esse valgono per
qualsiasi affare. Non sono ben vi-
ste dal potere in quanto minacciano
il suo monopolio d'emissione e i traf-
fici che avvengono attraverso di
esse possono sfuggire agli occhi
delle varie polizie fiscali, ma sono
un tentativo (il futuro ci dirà se e
quanto riuscito) di creare qualcosa
che ponga rimedio ad una carenza
reale. Quando, nell’ul-
tima metà del secolo
scorso, vennero a man-
care le monete metalliche, le banche
stamparono gli “assegnetti”,
pezzetti di carta del valore facciale
di 50 o 100 lire che tutti accettaro-
no e che risolsero assieme ad una
“pseudo moneta”: i gettoni telefo-
nici, il problema della mancanza di
moneta metallica.
Nei secoli i mercanti hanno creato
H
o servito la professione a livello locale (consigliere e poi presidente di un
Ordine), a livello nazionale (consigliere e vice-presidente del CN) ed
internazionale (in organismi come l’IASC, l’IFAC ed altri) ed ora la
servo come presidente di un Consiglio di Disciplina
Preciso che per questi incarichi non ho mai percepito un centesimo di compenso.
Mi hanno detto che questo non era giusto e che anche questo tipo di lavoro deve,
per un senso di giustizia commutativa, avere un equo compenso. Ne ho preso atto.
Non posso non seguire con attenzione e apprensione le vicende della professione,
in questo momento di vigilia delle elezioni degli organi apicali della questa, sia a
livello locale che a livello nazionale.
E’ mia convinzione che siamo oggi in un momento cruciale della professione, di una
professione che non sta certamente attraversando un periodo favorevole.
Una volta la materia tributaria, anche nel momento contenzioso, era appannaggio
incontrastato dei commercialisti. Nessuno sapeva cosa fossero gli avvocati
tributaristi. Oggi nelle anticamere delle commissioni tributarie vedo molti più avvo-
cati che commercialisti
L’Italia – anzi il nostro Consiglio Nazionale – ha avuto per tanti anni un posto nel
board
dell’IASC. Oggi nessuno se ne ricorda più.
Se si trattava di principi contabili ero io, in rappresentanza del Consiglio Naziona-
le, che interloquivo con l’Assonime e con gli organi parlamentari. Oggi – mi si
corregga se sbaglio – il peso della nostra professione a livello OIC è insignificante.
Le operazioni societarie e finanziarie erano studiate e discusse negli studi dei com-
mercialisti e non dagli avvocati d’affari.
Potrei continuare, ma il discorso mi rattrista. E’ necessario che la professione abbia
uno scatto di orgoglio, che riacquisti quel peso sociale e quell’autorevolezza che le
competono e che i nostri colleghi stranieri (e penso ai CPA o CA anglosassoni o ai
Wirtschaftsprüfer tedeschi, e non solo) hanno.
Ma per ottenere questo abbiamo bisogno di organi apicali che siano all’altezza.
Abbiamo bisogno che a comporli siano chiamate persone che abbiano costruito la
loro autorevolezza e il loro peso sociale nella professione e con la professione.
Persone che vivano giorno per giorno la professione, che ne conoscano i problemi
“dall’interno”, senza bisogno che qualcuno glieli indichi.
Non possiamo, non dobbiamo essere rappresentati da “professionisti della profes-
sione”. Non dobbiamo dare l’impressione che la campagna elettorale sia svolta più
per i vantaggi (economici o d’altra natura) che la carica comporta, che per l’orgoglio
di servire la professione, la consapevolezza di poter dare un apporto al suo
elevamento.
Suggerisco una regoletta, una
rule of thumb
: chiediamo a ciascuno dei candidati di
comunicare (e dimostrare) il rapporto fra i compensi percepiti per le cariche negli
organi della professione (o in strutture a questa collegate) ed il reddito professiona-
le complessivo.
Se tale rapporto è superiore ad un certo limite (penso al 15 o 20 per cento) sorge il
dubbio che si cerchi la nomina per il compenso per la carica e non per la carica in sé,
per la volontà di rappresentare e concorrere a migliorare la professione. Se si
seguiranno questi criteri anche il livello della contesa elettorale – di per sé legittima
– diventerà più elevato e più concreto.
Giancarlo Tomasin
(Ordine di Venezia)
Servire la professione,
non servirsi (degli organi)
della professione
molte “monete alternative” che li
aiutavano negli scambi. Tali sono,
ad esempio, l’assegno, la cambiale,
il charter party, la fede di deposito
eccetera. Esempi di come la “mano
invisibile” si dia sempre da fare per
risolvere i problemi economici che
si presentano.
Giorgio Maria Cambié
(Ordine di Verona)
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