Il Commercialista Veneto n.229 (GEN/FEB 2016) - page 9

NUMERO 229 - GENNAIO / FEBBRAIO 2016
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IL COMMERCIALISTA VENETO
Alessandro Solidoro
NORME E TRIBUTI
ALVISEBULLO
Ordine di Venezia
La liquidazione giudiziale irrisoria
cassata dalla Suprema Corte
e la (giusta) riforma dell'art. 15 D. Lgs. 546/92
L
A SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE,
con la sentenza n. 16953 pronunciata il 30
giugno 2015 e depositata il successivo 19
agosto 2015, ha sancito un importante
principio in materia di liquidazione delle spese di lite
in materia tributaria: «
in tema di liquidazione delle
spese processuali - che la parte soccombente deve
rimborsare a quella vittoriosa - il giudice del merito
non è tenuto a motivare circa la diminuzione o
riduzione di voci tariffarie tutte le volte, e per il solo
fatto, che liquidi compensi in somme inferiori a quelle
domandate nella notula, fermo restando il dovere di
non determinarli in misura inferiore ai limiti minimi
(o superiore a quelli massimi) indicati nelle tabelle in
relazione al valore della controversia e salvo che
sussista manifesta sproporzione
».
La sentenza della Suprema Corte costituisce un monito
alla sovente prassi delle Commissioni Tributarie di
merito che liquidano importi (spesso) irrisori a fronte
della totale vittoria del contribuente su importi
contestati in avvisi di accertamento/ di liquidazione/
cartelle di pagamento di ingente valore. La Cassazione
nella sentenza in commento, è stata adita dalla curatela
fallimentare della Società Sportiva Calcio Napoli la
quale, con unico motivo di ricorso per cassazione
denunciava la insufficiente liquidazione delle spese
dei gradi di merito compiuta dai Giudici della
Commissione Tributaria Regionale della Campania. A
fronte di una cartella di pagamento del valore di €
4.692.851,42 annullata integralmente, ebbene dapprima
la CTP di Napoli aveva compensato integralmente le
spese processuali, quindi la CTR della Campania aveva
liquidato cumulativamente per il doppio grado di
giudizio complessivi Euro 4.000,00 di cui Euro
3.700,00 di onorario oltre agli oneri accessori di legge.
Le parole utilizzate dalla Cassazione sono eloquenti:
«
Nella specie
la sproporzione è del tutto evidente
atteso
che la liquidazione finale e onnicomprensiva - operata
dal giudice d’appello in Euro 4000 di cui Euro 3700
per onorari del doppio grado -
è oggettivamente
talmente irrisoria e praticamente figurativa
rispetto
al valore incontroverso di una vertenza che, per
insussistenza della pretesa tributaria impugnata, ha
portato in primo grado al totale annullamento di un
cartella di oltre 4,6 milioni di Euro, mentre in secondo
grado il valore è circoscritto all’ammontare delle spese
processuali di prime cure, invocate con l’appello
principale accolto, e alle questioni riguardanti l’IRAP,
oggetto del rigettato appello incidentale.
E’ siderale la
distanza rispetto a qualsivoglia criterio liquidativo
che possa dirsi minimamente aderente alla tariffa
professionale dei dottori commercialisti vigente
all’epoca
».
Sono ben forti le espressioni utilizzate dalla Suprema
Corte, espressioni che, a parere di chi scrive, denotano
come la Suprema Corte abbia ritenuto la liquidazione
operata dai giudici di merito non solo irrisoria, ma
contraria finanche all’importanza dell’opera e al decoro
della professione. La
ratio
della liquidazione delle spese
di lite infatti è quella di evitare una diminuzione
patrimoniale alla parte che abbia dovuto svolgere
un’attività processuale per veder riconosciuto un
proprio diritto. Ed è evidente che a fronte del valore di
lite in contestazione, difficilmente la liquidazione
operata dai giudici di merito poteva definirsi congrua,
anche in ragione delle tariffe professionali in vigore.
Infatti l’esigenza avvertita dal legislatore di disciplinare
le tariffe professionali (e di fornire quindi anche ai
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giudici un indirizzo per la liquidazione delle spese di
lite) discende dall’importanza che la difesa assume
nel nostro ordinamento costituzionale. La prestazione
resa dai difensori (tributari e non solo) è di rango
costituzionale. Il diritto di difesa è del resto un diritto
inviolabile dell’uomo riconosciuto all’art. 24, comma
2 Costituzione il quale recita che «
La difesa è diritto
inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento».
Ebbene, il legislatore, proprio nella consapevolezza
di questa funzione costituzionale del diritto di difesa
e della prestazione del difensore, ha disciplinato, con
il D.M. 20 luglio 2012 n. 140, i parametri per la
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei
compensi per le professioni regolarmente vigilate dal
Ministero della Giustizia. In esso, prevale il
riferimento dell’opera e al decoro della professione.
In particolare, all’art. 17, rubricato “
Parametri
generali
” si legge: « Il compenso del professionista è
determinato con riferimento ai seguenti parametri
generali: a)
valore
e natura della pratica; b)
importanza, difficoltà, complessità
della pratica;
c) condizioni d’urgenza per l’espletamento
dell’incarico; d)
risultati e vantaggi, che non
economici,
ottenuti dal cliente; e) impegno profuso
anche in termini di tempo impiegato; f)
pregio
dell’opera prestata
».
Evidente che tali criteri non erano stati tenuti in debita
considerazione dai giudici di merito. Così sul punto
si esprime la Cassazione 16953/2015: «
Il giudice
d’appello affida la coordinate della propria
liquidazione a generiche formule di rinvio a “valore
economico delle lite” e alle “difficoltà operative
frapposte alla difesa tecnica dell’appellante”:
considerazioni evidentemente
acritiche
,
svincolate
dal contenuto degli atti di causa, indefinite e
insignificanti, attagliandosi astrattamente a
qualsivoglia ipotesi
»
Ciò si ritiene invece essere (parzialmente) avvenuto
nella recentissima sentenza della
Commissione
Tributaria Provinciale di Bergamo n. 16/05/2016,
pronunciata in data 20.11.2015 e depositata in
segreteria l’11.01.2016. In essa, oltre ad essere fatta
espressa applicazione del principio di soccombenza,
viene utilizzato quale metodo di liquidazione delle
spese (a favore del contribuente) la stessa notula
depositata in giudizio dall’Ufficio. In essa si legge:
«…
ex art. 15 D.Lgs. 546/1992 alla soccombenza
segue la condanna alle spese in favore dei ricorrenti,
nella misura indicata nel dispositivo (i.e. € 10.000,00)
e pari a quella richiesta dall’Ufficio, avuto riguardo
alla circostanza che l’errore iniziale è costato alla
contribuente la denuncia penale per il delitto di cui
all’art. 4 D.Lgs. 74/2000 ed il relativo procedimento
penale, in seno al quale la stessa è stata mandata
assolta con sentenza del Tribunale di Bergamo in
data 26.10.2015
».
I principi espressi dalla Corte di Cassazione nella
sentenza 16953/2015 trovano conferma nella riforma
del processo tributario attuata con la legge con il
D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 il quale ha riscritto
l’art. 15 del D. Lgs. 546/1992 in materia di spese di
giudizio (disposizione che è entrata in vigore l’1.01.2016).
La regola cui deve attenersi il giudice nella liquidazione
delle spese di lite rimane il
principio di soccombenza
.
Essa risponde, infatti, all’esigenza di evitare una
diminuzione patrimoniale alla parte che abbia dovuto
svolgere un’attività processuale (si ricorda che a fronte
della emissione da parte dell’Amministrazione
finanziaria di un atto illegittimo, l’unico modo che il
contribuente ha per far acclarare le proprie ragioni è la
via giudiziale) per veder riconosciuto un proprio diritto,
rispettandosi così il principio per cui la necessità di
agire o resistere in giudizio non deve andare a danno
della parte che ha ragione. Secondo l’orientamento
consolidato della Suprema Corte di Cassazione (cfr
Cassazione 7182/2002), in base al principio di causalità
la parte soccombente (sulla quale grava il pagamento
delle spese processuali) va individuata in quella che,
azionando una pretesa accertata come infondata (o
resistendo ad una pretesa fondata) abbia dato causa al
processo o alla sua protrazione.
Se la regola è il principio di soccombenza (“chi perde,
paga”) la compensazione degrada ad eccezione e viene
espressamente previsto, in tal caso, l’obbligo di
motivazione da parte del giudice: «
Le spese di giudizio
possono essere compensate in tutto o in parte dalla
commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza
reciproca o
qualora sussistano gravi ed eccezionali
ragioni che devono essere espressamente motivate
».
Come riconosciuto dalla stessa Agenzia delle Entrate
nella Circolare n. 38/E del 29 dicembre 2015, «
in ordine
alla sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni, la
Corte di Cassazione ha chiarito che gli elementi
apprezzati dal giudice di merito a sostegno del decisum
devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della
controversia decisa (Cass. 13 luglio 2015, n. 14546;
Cass. 11 luglio 2014, n. 16037) e devono essere
soppesati “alla luce degli imposti criteri della gravità
(in relazione alle ripercussioni sull’esito del processo o
sul suo svolgimento) ed eccezionalità (che, diversamente,
rimanda ad una situazione tutt’altro che ordinaria in
quanto caratterizzata da circostanze assolutamente
peculiari)” (Cass. 17 settembre 2015, n. 18276). Non
può, pertanto, ritenersi soddisfatto l’obbligomotivazionale
quando il giudice abbia compensato le spese “per motivi
di equità”, non altrimenti specificati (Cass. 13 luglio 2015,
n. 14546; Cass. 20 ottobre 2010, n. 21521), né quando le
argomentazioni del decidente si riferisconogenericamente
alla“peculiarità”dellavicendaoalla“qualitàdelleparti”
o anche alla “natura della controversia” (cfr. anche Cass.
17 settembre 2015, n. 18276)
».
All’importante novità normativa concernente l’obbligo
di motivazione della compensazione delle spese di lite
si affianca l’espresso riconoscimento (tramite il richiamo
all’art. 96, commi 1 e 3 c.p.c.), anche per le liti fiscali,
della condanna alle spese per lite temeraria. Risarcimento
del danno per lite temeraria che si affianca alla condanna
alla refusione delle spese di lite. Il
nuovo art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992 mira così, da un
lato, a scoraggiare difese pretestuose (anche da parte
dell’Amministrazione Finanziaria) preservando così la
funzionalità del sistema giustizia deflazionando il
contenzioso ingiustificato; dall’altro mira a tutelare la
parte che vanta un proprio diritto riconoscendo al
danneggiato, in virtù del richiamo al comma 3 dell’art.
96 c.p.c. un risarcimento liquidato d’ufficio, ed in via
equitativa, dal giudice, senza la necessità per la parte di
fornire la prova dell’effettivo danno subito.
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