Il Commercialista Veneto n.233 (SET/OTT 2016) - page 24

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NUMERO 233 - SETTEMBRE / OTTOBRE 2016
IL COMMERCIALISTA VENETO
FUORI CAMPO IVA
LA PROMISSIONE DUCALE
Paolo Lenarda
Ordine di Venezia
L
’inizio della lunga storia della Repubblica Serenissima di Venezia è confusa,
incerta e difficilmente interpretabile.
Il primo Doge è Paoluccio Anafesto che, nell’anno 697, risiede in Eraclea.
Asuccedergli non è una persona della famiglia, ma viene elettoMarcello Tegalliano:
il potere non si eredita. AVenezia il principe non lascia eredi.
Ci sono stati vari tentativi per iniziare una successione, ma la
delibera di Domenico Flavianico, doge dal 1032 al 1042, che vieta
anche la nomina di un vice doge, rafforza la iniziale decisione. Alla
morte del doge, con procedure non sempre uguali ma comunque a
mezzo di una elezione, si procede alla nomina di un nuovo doge.
Non è una vera democrazia perché il bacino degli elettori e degli
eletti è limitato alle classi superiori, ma la scelta, di volta in volta,
della persona da porre alla guida dello Stato è fondamentale per la
vita lunga e prestigiosa della Repubblica Serenissima.
Venezia non ha una costituzione: il doge, all’atto della sua elezione,
per essere nominato capo della Repubblica, deve sottoscrivere lui,
e, nei secoli più tardi, anche la sua consorte, quella che fin dall’ini-
zio è chiamata promissione ducale.
E’ una serie di impegni del doge soprattutto a non fare: non agevo-
lare i propri familiari, “non dar opera a conseguire maggior potere
di quanto era loro concesso”.
Una serie di divieti che nel corso degli anni sono diventati sempre
più numerosi e più gravosi.
C’è un libro bellissimo di Eugenio Mussati scritto nel 1888 e ripro-
dotto in forma anastatica da Filippi Editore nel 1983 che ripercorre
la storia delle promissioni ducali. Venezia procede con misure sem-
pre “più restrittive a tutelare il pubblico diritto contro l’autocrazia del principe”.
L’autorità e il potere del doge, vengono, nel tempo, affidate ad altre magistrature
che esercitano, a fianco del doge, funzioni di legislazione, controllo, giustizia, rego-
lamento dei commerci e ogni altra attività che in altri paesi con altre organizzazioni
sono riservate al principe che opera, sostanzialmente, senza controlli.
La promissione ducale indica i limiti di comportamento del doge nei confronti della
città e dei cittadini.L’elezione del doge avviene con complicate votazioni che alter-
nano scelte degli elettori con estrazione a sorte per impedire accordi fra famiglie o
fra correnti.Ho già avuto modo di raccontare la votazione per il doge nel n.182 del
nostro giornale.I consiglieri del doge aumentano: originariamente erano due, poi
diventano sei, uno per sestiere.
Nel 1229 la promissione ducale che giura Jacopo Tiepolo è già impegnativa: con-
servare in buono stato il dogado, non ricevere doni. Deve, inoltre, provvedere, a sue
spese, alla copertura del palazzo con lastre di rame
Dopo la mancata congiura del doge Marin Faliero (1355) i cinque correttori della
promissione ducale limitano ancora la discrezionalità del doge al quale, negli anni
successivi, è imposto di procurarsi, “pro honore ducatus”, entro sei mesi dalla
nomina, una “bella veste tessuta d’oro”
La promissione del doge Marino Grimani nel 1595 è di 108 pagine,
quella di Giovanni Cornaro nel 1709 è di 165 e quella di Ludovico
Manin, ultimo doge, nel 1789 raggiunge 301 pagine completata da
16 pagine per l’indice.
Con l’andar del tempo il doge perde poteri e prerogative. Le riunioni
del consiglio sono soltanto presiedute dal doge che ha un voto, come
tutti gli altri. Anche le credenziali degli ambasciatori scritte, in nome
del principe, non portano né la sua firma né il sigillo, a dimostrare che
il doge rappresenta la Repubblica ma non ne è il gestore.
Il doge, dal 1539 “al pari di qualunque altro patrizio è soggetto al
consiglio dei dieci da cui dipendono gli “inquisitori di stato”.
Musatti dice “Ma cos’era il doge se non una larva di principe!”. E,
in una nota in calce alla pagina, precisa che il doge non aveva
nemmeno il diritto di grazia che, anche oggi, hanno i capi dello
Stato. Il 12 aprile 1623, alla morte del doge Priuli, la cerimonia
funebre è chiusa con queste parole: “Con molto dispiacere avremo
salutato la morte del serenissimo principe di tanta bontà e pietà:
però ne faremo un altro”. Non è l’uomo, ma è l’immagine del doge
che conta.
Aggiunta dopo aggiunta la promissione ducale elimina sempre di più il potere del
doge. Eugenio Mussati, ricordando il pericolo napoleonico, chiude sconsolato il
suo libro: “O se Ludovico Manin, ultimo doge, avesse potuto ordinare che i 5293
pezzi di artiglieria più non rimanessero inoperosi”.
Ma l’ultimo doge non ha questo potere. Le armi rimangono nei magazzini. Venezia
non può difendersi. Venezia si arrende ai francesi. Il doge abdica.
E’ stato meglio così. La Storia sta cambiando. La Repubblica ha finito il suo tempo.
Rimane Venezia. Intatta. Splendida. E’ il 12 maggio 1797.
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