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NUMERO 219 - MAGGIO / GIUGNO 2014
IL COMMERCIALISTA VENETO
zione comporti la preclusione di cui all’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/72,
occorre che la richiesta (infruttuosa) fatta dai verificatori risulti trascritta nel verba-
le dovendosi escludere che ciò possa avvenire in presenza di una semplice richiesta
orale successivamente non verbalizzata.
E’ necessaria pertanto una specifica richiesta dei verificatori nonché l’elemento
intenzionale “
inteso come comportamento intenzionalmente doloso e fraudolento
del contribuente diretto ad intralciare l’attività di accertamento
9
"
.
Risulta quindi palese come la strategia da adottare non può che essere influenzata
dalle dichiarazioni che il contribuente decide, consapevolmente o meno, di mettere
a verbale. Quanto al valore giuridico ed alla conseguente rilevanza probatoria di tali
dichiarazioni, ovviamente verbalizzate e, come tali, sottoscritte dall’interessato, le
stesse avrebbero valore di semplici “ammissioni”, come tali liberamente valutabili
dal giudice e prive di ogni valore proprio della prova legale
10
.
PARTE DELLA GIURISPRUDENZA HA INVECE ASSUNTO una posizione
ben diversa ed, in particolare, la Corte di Cassazione con la sentenza del 26 gennaio
2004, n. 1286, ha tracciato, al riguardo, un solco profondo: “
la partecipazione alle
operazioni di verifica senza contestazioni equivale sostanzialmente ad accettazione
delle stesse e dei loro risultati. Se avesse avuto qualcosa da contestare sulle opera-
zioni di verifica (che concernevano – e vale sottolinearlo – la materialità dei fatti e
non considerazioni tecniche o giuridiche) il contribuente avrebbe dovuto, e potuto,
formulare immediatamente, seduta stante, il proprio dissenso e pretendere che le
proprie contestazioni fossero riportate sul verbale”.
Stante a quanto sopra riportato, si evince che non occorre una accettazione espres-
sa ma soltanto la mancanza di contestazioni in quanto qualora il contribuente
avesse ritenuto necessario contestare le operazioni di verifica avrebbe dovuto ma-
nifestare seduta stante il proprio disappunto e, in caso di rifiuto da parte dei
verificatori di verbalizzare le riserve, di comunicare immediatamente per iscritto la
propria protesta, segnalando il rifiuto e ribadendo le contestazioni
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.
La conseguenza diretta che una simile pronuncia giurisprudenziale può avere nella
quotidianità delle verifiche fiscali è che il contribuente contesti a prescindere le
osservazioni mosse dai verificatori. La
ratio
infatti tende a mutare.
L’obiettivo del contribuente accertato non si configura più nella possibilità di poter
affermare le proprie legittime ragioni sulle osservazioni mosse dai verificatori quanto
piuttosto quello di vedersi preclusa la possibilità di contestare le stesse in sede
contenziosa per non averlo fatto in sede di verifica. Occorre pertanto scomodare
Papa Bonifacio VIII e la sua celeberrima frase “
Chi tace acconsente
?”. L’esperienza
ha però dimostrato che non sempre chi non risponde ribattendo è propenso a condi-
videre il pensiero di un’altra persona. Si deve perciò iniziare a parlare di “partecipa-
zione obbligata” o di “dovere a collaborare” durante le operazioni di verifica pena il
verificarsi di conseguenze aggravanti in sede di formazione dell’atto impositivo.
Inoltre tutto ciò provoca una rilettura dell’art. 10, comma 1, Legge n. 212/2000
dove è stabilito che “
I rapporti tra contribuente e Amministrazione Finanziaria
sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede
”.
Alla luce di quanto su riportato il buon senso e lo spirito collaborativo che dovreb-
bero improntare le relazioni tra Amministrazione Finanziaria e contribuente vengo-
no di fatto disattesi.
La Corte di Cassazione ha però avuto modo di ritornare sull’argomento con la
sentenza dell’11 gennaio 2006, n. 303, attraverso la quale ha sancito che le dichia-
razioni rese dal contribuente in sede di verifica rappresentano “
confessione
stragiudiziale e, pertanto,[…] una prova diretta e non indiziaria del maggior
imponibile accertato nei suoi confronti, non abbisognevole, come tale, di ulteriori
riscontri
” Risulta pertanto confermata la necessità di una partecipazione attiva da
parte del contribuente durante la verifica in quanto una sua eventuale inerzia o
limitata collaborazione, può assumere valore di confessione stragiudiziale.
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A ulteriore supporto di questa tesi è intervenuta la stessa Corte di Cassazione con
ulteriori pronunce, tra le quali si segnalano:
sentenza del 11 gennaio 2006, n. 309, la quale afferma che “
Le dichiarazio-
ni rese dal contribuente alla Guardia di Finanza, in quanto rese alla controparte o
ad un suo rappresentante, vanno valutate come una confessione stragiudiziale
costituente prova diretta e non indiziaria dei fatti riconosciuti come veri
”;
sentenza del 26 gennaio 2007, n. 1736, la quale afferma che “
Da un attenta
lettura della sentenza impugnata emerge chiaramente che l’accertamento
de quo
era fondato, non tanto su presunzioni, bensì proprio sulle più volte ricordate
dichiarazioni rese da esso ricorrente alla P.G., circa la provenienza della somma
rinvenuta nell’automobile da lui guidata (equivalenti a confessione stragiudiziale);
le dichiarazioni in parola dunque costituivano prova dirette su cui si era legittima-
mente fondato l’accertamento dell’ufficio […]
”.
Sempre sul difficile rapporto tra contribuente e Amministrazione Finanziaria meri-
ta di essere citata la Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna con la senten-
za del 12 dicembre 2001, n. 129, il cui interesse risiede nel fatto che i giudici hanno
risolto l’annosa diatriba applicando semplicemente (mai avverbio risuona più cor-
retto) i principi dettati dallo Statuto del Contribuente. Si legge infatti: “
I rapporti
tra Fisco e contribuente, in un moderno Stato di diritto, devono essere fondati sulla
parità delle parti, e sul concetto di buona fede reciproca (si confronti il contenuto
dell’art. 10 dello Statuto del contribuente). […] Costituisce dato di comune espe-
rienza che ogni contribuente, posto di fronte all’autorità tributaria, si trovi in
difficoltà e sia portato ad affermazioni in certomodo indotte dagli stessi verbalizzanti.
Ed infatti, su tale preliminare, le affermazioni contenute nel ricorso introduttivo
paiono prevalenti rispetto alle ambigue risultanze del verbale richiamato
”.
Riassumendo, i primi giudici di Ravenna pongono l’accento sulla mancanza di
buona fede, manifestata dai militari mediante l’utilizzo di procedure ingannevoli ed
atte a porre il cittadino in una posizione di difesa e sudditanza
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.
Chiaramente risulta poi basilare che il contribuente dimostri in sede di processo il
perché non è stato in grado di fornire le informazioni durante la verifica anche
perché bisogna sempre rammentare cosa sancisce l’art. 52, comma 5, del D.P.R. n.
633/72, in materia di preclusione probatoria.
Ma allora il silenzio o il barricarsi dietro un classico “non ricordo” conviene oppure no?
Fermo restando che una risposta univoca sul corretto profilo da seguire non esiste,
risulta alquanto interessante illustrare le argomentazioni a favore di una o dell’altra
tesi lasciando poi al lettore l’onere della scelta.
Volendo tentare una casistica comportamentale forse più tipica degli studi sociologici
che di quelli tributari, si può affermare che, secondo alcuni, il contribuente deve
avere un contegno, per così dire, di cordiale indifferenza, finalizzato in qualche
modo a dilatare i tempi del controllo confidando nel decorso dei famigerati 30 o 60
giorni di permanenza presso la sede (da non confondere con la durata della verifica).
Insomma, una sorta di gentile boicottaggio da realizzare senza però svelare le
proprie reali intenzioni. Secondo altri, la strategia vincente sarebbe invece quella
palesemente ostruzionistica, volta ad intimorire l’avversario (cioè il verificatore).
Rientrano in questa categoria i comportamenti di chi fin dal primo contatto solleva
tutte le eccezioni possibili e immaginabili, magari nella cosciente consapevolezza
dell’inutilità di tutte o almeno di alcune delle proprie richieste o delle proprie
lamentele, inoltrate comunque nel convincimento – di norma, si ritiene, del tutto
errato – che in questo modo il verificatore potrebbe esserne intimorito, finendo per
comprimere al massimo l’oggetto e la durata del controllo in attesa di contribuenti
meno coriacei.
Secondo altri ancora in questi casi bisogna, invece, lasciar fare, naturalmente se-
guendo con grande attenzione l’evoluzione del controllo ma senza esporsi, stando
cioè alla finestra senza manifestare o far comunque intuire le eccezioni pronte ad
essere poi sollevate innanzi all’organo accertatore o ancorameglio in sede contenziosa.
E ciò per evitare che il verificatore possa correre ai ripari già durante l’ispezione, ad
esempio, rettificando una procedura irrituale o motivando più accuratamente un
determinato rilievo
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.
In conclusione, decidere se rilasciare o non rilasciare una dichiarazione, se muovere
o non muovere un’eccezione, scegliere in quale preciso momento fare tutto ciò, può
essere aiutato, come si è avuto modo di vedere nel corso dell’elaborato, dalle pro-
nunce della Cassazione che inevitabilmente influenzano il pensiero del contribuen-
te sul comportamento più corretto da tenere in sede di verifica fiscale.
Il galateo e le verifiche fiscali
SEGUE DA PAGINA 17
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Sull’argomento si rinvia alla sentenza della Cassazione del 30 dicembre 2009, n. 28049.
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Cosi si esprime la Circolare della Guardia di Finanza del 29 dicembre 2008, n.1, Volume II – Parte IV - Metodologie di controllo, Capitolo II, Paragrafo 6, rubricato “Le
dichiarazioni di parte e testimoniali”.
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Sull’argomento si rinvia alla sentenza della Cassazione del 30 dicembre 2009, n. 28049.
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Cosi si esprime la Circolare della Guardia di Finanza del 29 dicembre 2008, n.1, Volume II – Parte IV - Metodologie di controllo, Capitolo II, Paragrafo 6, rubricato “Le
dichiarazioni di parte e testimoniali”.
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Si rimanda sul punto a M. Andriola,
Fissate le regole in materia di confessioni stragiudiziali e modalità di determinazione delle percentuali di ricarico
, in “FISCO oggi”, ed.
del 20 maggio 2004.
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L’art. 2735 del codice civile recita: “La confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale. Se è fatta a un terzo
o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice. La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale la prova
testimoniale non è ammessa dalla legge”. La confessione stragiudiziale, in quanto prova che non si forma, ma che viene soltanto dedotta nel processo, ha bisogno, a sua volta,
di essere provata. L’onere della prova, spettante sempre a colui che in mancanza di confessione dovrebbe provare il fatto a sé favorevole, si sposta però in questo caso
dall’oggetto della confessione all’esistenza stessa della dichiarazione confessoria che a tali fatti si riferisce. Se la confessione è consacrata in un documento, essa è provata
attraverso la produzione o l’esibizione del documento stesso, qualora invece sia stata resa oralmente, può essere provata per testimoni. Si rinvia a G. Cian e A. Trabucchi,
Commentario breve al Codice Civile
, decima edizione, cit., pag. 3524 ss..
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La fattispecie riguardava una verifica presso un esercente attività di commercio ambulante il quale si era sentito porre dai verificatori la seguente domanda: “
può spiegare per
quale motivo la maggior parte dei corrispettivi relativi alla presenza di un banco presso le sagre paesane non vengono registrati?
”.
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Si rimanda a G. Pezzuto,
Effetti delle dichiarazioni del contribuente sottoposto a verifica fiscale
, cit., pag. 2210.