Page 14 - CV_211

Basic HTML Version

14
NUMERO 211 - GENNAIO / FEBBRAIO 2013
IL COMMERCIALISTA VENETO
Le finalità perseguite dall’autotutela vanno oltre l’ambito appena citato. L’autotutela
è, infatti, uno strumento ulteriore a disposizione dell’Amministrazione per realiz-
zare l’acquisizione delle entrate tributarie nel rispetto delle norme e dei principi
dell’ordinamento, svolgendo così una funzione “accessoria” rispetto ai poteri d’im-
posizione. E tale scopo viene perseguito attraverso provvedimenti favorevoli o
sfavorevoli al contribuente, ma comunque finalizzati al soddisfacimento dell’inte-
resse pubblico che costituisce, come si è detto fin dall’inizio, la ragione d’essere del
potere di autotutela delle pubbliche amministrazioni.
I
l diniego all’esercizio di autotutela costituisce ormai oggetto di giudizio da parte
della giurisprudenza tributaria. Come opportunamente osservato da un’autore-
vole dottrina, l’esercizio di questa funzione appare tuttavia infruttuosa per i
soggetti passivi d’imposta che la attivano.
È stato già evidenziato che la sentenza n. 2870/2009, nella parte in cui precisa che
il mancato esercizio del potere di autotutela non è sindacabile «
trattandosi di eser-
cizio di un potere discrezionale della stessa e non di un obbligo giuridico
», non
appare molto convincente. La finalità di tale istituto si identifica, da una parte, nella
tutela di un interesse legittimo costituzionalmente protetto e, dall’altra, nell’inte-
resse pubblico ad una giusta imposta conforme ai principi di eguaglianza, di capa-
cità contributiva e di esercizio imparziale della funzione tributaria di cui, rispettiva-
mente, agli artt. 3, 53, 97 Costituzione. E questo generico interesse al ripristino
della legalità si realizza attraverso l’assunzione di un provvedimento conforme alla
legge; ne consegue che la valutazione rimessa all’Amministrazione Finanziaria nel
riesame è necessariamente diretta a stabilire se l’obbligazione tributaria, ancorché
risultante da atto inoppugnabile o da giudicato, sia o non sia conforme a giustizia
non potendo essere adottata una decisione diversa da quella imposta dalle disposi-
zioni dell’ordinamento giuridico. Siamo quindi dell’avviso che in sede di riesame il
solo interesse da valutare sia il ripristino della legalità; proprio in considerazione di
tale finalità esclusiva è da attribuire carattere vincolato all’esercizio dell’autotutela
a meno che non si sia in presenza di un fatto già esaminato dal giudice nel merito.
Tale tesi, come abbiamo già osservato, è condivisa anche in dottrina.
Ed ancora, oggetto del processo tributario è l’esame di una confermata violazione di
un interesse legittimo; ne deriva che contro gli atti della Pubblica Amministrazione
è sempre ammessa, ai sensi del richiamato art. 113 Costituzione, la tutela
giurisdizionale. In tale contesto a parere di chi scrive, non si comprende come gli
atti di diniego della Pubblica Amministrazione non possono formare oggetto di
ricorso presso il competente giudice tributario il quale è tenuto ad esercitare il
proprio sindacato emettendo il relativo giudizio procedendo, come opportunamen-
te osservato in dottrina, «all’accoglimento ovvero al ricorso e quindi all’annulla-
mento o al non annullamento del provvedimento stesso».
Con riferimento al diritto-dovere relativo alla giusta imposta, osserviamo che l’art.
53 contiene tre distinti principi e criteri:
1. Quello della solidarietà che si realizza mediante il concorso generalizzato dei
consociati alle pubbliche spese;
2. Quello dell’applicazione della giusta imposta la quale è dovuta solo se si ravvisi,
nei confronti del soggetto passivo di imposta, una capacità contributiva certa ed
effettiva;
3. Quello della redistribuzione del reddito tra i consociati-contribuenti che si
concretizza nell’applicazione delle imposte secondo criteri di progressività. Vale
peraltro la pena di ricordare come, nell’ambito del rispetto dei predetti principi e
criteri, sia del tutto ragionevole ritenere esistente, nella richiamata norma costitu-
zionale, anche un principio antielusivo nel senso che lo Stato, attraverso gli uffici
periferici dell’Amministrazione Finanziaria, può legittimamente ampliare la capa-
cità contributiva dichiarata mediante il disconoscimento dei benefici fiscali derivan-
ti da operazioni elusive, e ciò all’evidente fine di evitare la violazione della prima
parte del primo comma dell’art. 53 (e dell’art. 2 Costituzione) che si realizzerebbe
se al concorso alle spese pubbliche alcuni soggetti dovessero risultare meno incisi
rispetto alla reale capacità contributiva per effetto di operazioni effettuate al solo
fine di sottrarsi agli inderogabili obblighi di contribuzione. Non appare quindi
azzardato ipotizzare l’esistenza di un generale principio di antiabuso immanente
nel nostro sistema.
L
’orientamento della Cassazione, di cui alla sentenza n. 2870/2009, appare
peraltro in contrasto sia con la precedente pronuncia n. 7388/2007 che la
successiva sentenza n. 9669/2009 secondo le quali deve essere riconosciuto,
al contribuente, la possibilità di contestare il rifiuto dell’Amministrazione Finan-
ziaria di riesaminare un atto non più impugnabile innanzi al giudice. L’importanza
di tali due ultime decisioni risiede nel fatto che il sindacato del giudice riguarda oltre,
ovviamente l’esistenza dell’obbligazione tributaria, anche il corretto esercizio del
potere discrezionale dell’Amministrazione Finanziaria. E come abbiamo sottoline-
ato sullo stesso orientamento deve collocarsi la sentenza, a Sezioni Unite n. 16776/
2005 con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha tra l’altro previsto la possibi-
lità di far valere fatti impeditivi, estintivi o modificativi compresi gli eventi soprav-
venuti della pretesa tributaria. Non si dimentichi, inoltre, che l’art. 2 del citato
D.M. n. 37/1997 dispone l’obbligatorietà del riesame del provvedimento a seguito
di un’azione promossa dal contribuente e l’annullamento, quale doveroso atto nei
casi di inesistenza del presupposto d’imposta. Tale conclusione ci sembra perfino
ovvia dal momento che, a parere di chi scrive, non riusciamo a concepire come uno
Stato democratico possa pretendere una prestazione pecuniaria solo perché il sog-
getto passivo d’imposta non abbia impugnato un atto impositivo dichiaratamente
infondato trattandosi (così dispone il richiamato art.2 del citato decreto ministeriale)
di errore di persona, di errore sul presupposto d’imposta, di doppia imposizione.
E’ stato osservato che una delle questioni centrali nello studio della autotutela
tributaria è se in presenza di un atto impositivo che abbia acquisito il crisma della
definitività, il contribuente che presenti un’istanza di autotutela (ex art. 5 del D.M.
n. 37/1997) sia portatore di una situazione giuridica soggettiva tutelabile in sede
giurisdizionale. Il Ministro delle Finanze, pur escludendo che l’ufficio abbia un
dovere giuridico di ritirare l’atto viziato, ha tuttavia riconosciuto che la discrezionalità
non deve essere intesa come mera facoltà, in quanto il mancato esercizio
dell’autotutela nei confronti di un atto chiaramente illegittimo può comportare:
1) in caso di giudizio tributario, la condanna alle spese dell’Amministrazione con
conseguente danno erariale;
2) in caso di grave inerzia dell’ufficio, l’intervento in via sostitutiva dell’organo
sovraordinato (art.1 del D.M. n. 37/1997).
Secondo la prassi ministeriale, quindi, si deve configurare un potere-dovere giuridi-
co alla revisione dell’atto, ma comunque tale potestà è riconosciuta e diretta nel-
l’esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, non rappresentando, peraltro,
un ulteriore grado di difesa del contribuente.
Il diniego di autotutela come si è visto può consistere in un provvedimento “espresso”
contenente il rigetto dell’istanza di annullamento ovvero in un “rifiuto tacito”,
intendendosi comunque che l’istituto dell’autotutela nel settore tributario non pre-
vede l’applicabilità della figura del silenzio-rifiuto e in tal senso manca un’espressa
volontà legislativa (salvo le specifiche eccezioni di cui all’art. 19, comma 1, lett. g),
del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546).
Si è posta la correlata questione dell’impugnabilità del diniego di autotutela e di
riflesso, quella attinente all’individuazione del giudice competente tra quello tribu-
tario (Commissioni Tributarie, se si considera il potere di autotutela rientrante
nell’ambito del diritto tributario in quanto strettamente connesso all’atto cui si
riferisce), o quello amministrativo (TAR, se tale potere è definito come attività
discrezionale dell’Amministrazione Finanziaria nell’ambito del diritto pubblico
amministrativo).
S
ulla questione dell’impugnabilità del diniego di autotutela la Corte di Cassazione
si era pronunciata in tempi meno recenti, in particolare con le sentenze n.
13412/2000 e n. 1547/2002, ove aveva precisato che il potere attribuito
dall’art. 68 del D.P.R. n. 287/1992 agli uffici dell’Amministrazione Finanziaria
costituisce una facoltà discrezionale che “non può” essere sindacata in sede in
impugnazione dell’atto. Su queste basi e, comunque, a dirimere il relativo contrasto
giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 16776/2005,
la quale – ribaltando il precedente orientamento della Sezione Tributaria – ha segna-
to un significativo punto di svolta in materia, ammettendo la sindacabilità del
potere di autotutela dell’ente impositore.
Successivamente è stato osservato che con la sentenza n. 7388/2007 la Supre-
ma Corte di Cassazione ha risolto anche la questione relativa al trattamento
da riservare alle controversie in tema di autotutela, affermando che le cause
aventi a oggetto il rifiuto espresso o tacito di procedere ad autotutela debbo-
no essere proposte davanti alle Commissioni Tributarie. Infatti, ponendosi
sul tracciato interpretativo della precedente pronuncia n. 16776/2005, la Su-
prema Corte di Cassazione ha ribadito che, a seguito delle modifiche appor-
tate dall’art. 12 della L. n. 448/2001, tutte le controversie incidenti sul rap-
porto tributario sono devolute alla cognizione delle Commissioni Tributarie,
la cui giurisdizione è oramai radicata in base alla materia, “indipendentemen-
te” sia dal tipo di atto impugnato sia dal tipo di potere esercitato, non esi-
stendo una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore
del giudice amministrativo.
A
nalizzando la sentenza n. 7388/2007, l’Istituto di ricerca dei dottori com-
mercialisti (IRDCEC) con la circolare n.7/IR del 10 novembre 2008, ha
sottolineato che, alla luce delle ricostruzioni operate sulla natura del potere
di autotutela e sugli effetti che derivano dalla presentazione dell’istanza da parte
del contribuente, «le conclusioni cui pervengono in tal caso i giudici di legittimità,
risultano poco soddisfacenti».
Con la sentenza n. 26313/2010, la Cassazione ha stabilito che il contribuente può
certamente impugnare il diniego di autotutela o il mancato esercizio della stessa da
parte dell’Amministrazione Finanziaria ma il giudice tributario può soltanto valu-
tare la condotta omissiva dell’ente impositore e non anche il merito della pretesa
erariale avanzata.
Tale decisione appare in linea con un filone giurisprudenziale di legittimità ormai
ampliamente consolidato, come si desume dalle sentenze richiamate.
Per completezza d’analisi, tuttavia, è importante evidenziare che, in passato, la
Cassazione non si è sempre attestata su tale posizione, essendosi pronunciata in
diverse occasioni anche a favore della non impugnabilità del diniego di autotutela
dell’Amministrazione Finanziaria.
SEGUE DA PAGINA 13
L'autotutela nel diritto tributario
e l'impugnabilità dei provvedimenti di diniego