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NUMERO 209 - SETTEMBRE / OTTOBRE 2012
IL COMMERCIALISTA VENETO
abbiano proclamato la libertà dell’individuo, ma abbiano applicato criteri propri
dello Stato etico invece di quelli di quello liberale.
Con l’art. 41 fu statuito che «l’iniziativa economica privata è libera», ma anche che
«non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» e che «la legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», il successivo art. 42 prevede
limiti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (parole
cui si può attribuire qualsiasi significato); la paura del mercato e dei suoi meccani-
smi autoregolatori a me pare evidente, gli operatori economici italiani, cioè, sono
liberi di intraprendere solo entro i limiti loro imposti dai controlli pubblici.
Più grave ancora dal punto di vista della libertà a me appare la nostra Costituzione
in materia di spesa pubblica e relativa imposizione fiscale per sostenerla.
Che al cittadino italiano debba essere garantita la libertà di utilizzo, per il consumo
o per il risparmio, di ciò che produce è questione che, evidentemente, neanche ha
sfiorato le menti dei costituenti.
Tutto ciò che si trova, infatti, si limita all’art. 23 («nessuna prestazione personale
o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge») e all’art. 81 ove, dopo
aver affermato che la legge di approvazione del bilancio non può contenere «nuovi
tributi o nuove spese» si aggiunge «ogni altra legge che importi nuove o maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi fronte
3
» peraltro senza neanche preoccuparsi
di escludere da tali mezzi i debiti.
Evidentemente i costituenti non badarono al loro collega Einaudi
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e si preoccuparono
di proteggere i cittadini in quanto contribuenti dal Governo, ma non dal Parlamento;
il risultato è che se il parlamento italiano votasse, anche con la misera maggioranza di
un solo voto, una legge che stabilisse che l’aliquota unica dell’imposta sul reddito è il
100%, tale legge forse sarebbe in contrasto con i principi ispiratori dell’ordinamento
giuridico (i quali vengono però decisi di volta in volta quando occorre e ciò a me fa
molta paura!), ma non violerebbe nessuna esplicita norma costituzionale.
E poi dover ricorrere ai principi ispiratori rende opinabile il punto di rottura oltre
il quale l’imposizione fiscale costituisce violazione della libertà individuale.
Sono convinto, e più avanti lo ribadirò, che la tutela della libertà del singolo di decidere
lui, e non altri, come usare il reddito che produce debba essere introdotta nella legge
fondamentale dello Stato come avviene, per quanto ho scoperto, solo nella Confedera-
zione Svizzera. Devo infine ricordare che l’art 53 della Costituzione, rendendo omaggio
ad uno dei più diffusi miti della politica applicata all’economia, proclama «il sistema
tributario è informato a criteri di progressività»; ripetere qui perché la teoria dell’utilità
marginale decrescente non possa essere usata per rendere ragionevole la progressività
dell’imposizione fiscale mi porterebbe fuori strada
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.
Io sono comunque convinto che l’imposta progressiva, sottraendo proporzional-
mente di più a chi più guadagna, cioè riducendo la parte di reddito più disponibile
per il risparmio, abbia come effetto principale quello di contenere gli investimenti
che creano lavoro e nuova ricchezza. Se negli anni ’50 del ‘900 gli italiani, invece di
poter reinvestire quanto risparmiavano evadendo, avessero pagato tutte le imposte
che avrebbero dovuto (permettendo così a governanti e burocrati di decidere loro
che cosa fare di quei soldi) non ci sarebbe stato il boom economico e oggi l’Italia non
farebbe parte del G8. Mi chiedo, infine, se i deputati “borghesi” all’Assemblea
costituente che votarono a favore della progressività del sistema fiscale avessero
presente che un secolo prima proprio l’imposta progressiva era stata elencata tra
gli strumenti che il proletariato avrebbe usato
«per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare
tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato
organizzato come classe dominante
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»
.
Excursus storico
Interessante mi pare sia cercare di ripercorrere l’evoluzione cui accenna Einaudi (i
parlamenti un tempo resistevano alle proposte di spesa del Governo mentre già 65
anni fa, al tempo dell’assemblea costituente italiana, era avvenuto che avessero pro-
posto spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle).
I deputati, afferma Einaudi, lo facevano per “per rendersi popolari” e io cercherò di
mostrare quanto amaramente illuminante sia tale inciso e perché, proprio per que-
sto motivo, sia assurdo permettere che sia la semplice maggioranza parlamentare a
decidere quale parte della ricchezza ogni anno prodotta dalla nazione debba essere
sottratta alla disponibilità di chi l’ha realizzata per essere spesa a discrezione di
governanti e burocrati. Fin dal Medio Evo sono esistite riunioni di uomini (chiama-
te Diete o Stati) che prendevano decisioni politiche, ivi comprese quelle che appro-
vavano o respingevano le richieste (di denaro e di uomini armati) del sovrano.
All’epoca, infatti, non si concepiva un corpo politico se non composto dal sovrano
in posizione contrapposta ai suoi sudditi, ed era naturale che a voler spendere fosse
il sovrano, che, in genere per ingrandire il suo regno, chiedeva ai sudditi il denaro e
gli altri mezzi che gli servivano.
Nell’alto Medio Evo erano spesso contemplate sanzioni per chi, convocato, non si
presentava all’assemblea che doveva trattare le contribuzioni in quanto tali oggetti
«andavano trattati singolarmente con ognuno degli intervenuti quasi su di un piede
contrattuale
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»; dal XIII – XIV secolo in poi le sanzioni per l’assente scompaiono.
«Il motivo di questa trasformazione va ricercato, in linea generale, nel fatto che
mentre prima chi non aveva consentito alla contribuzione poteva non ritenersi
obbligato a pagarla, dopo si era affermato il principio che i presenti potessero
vincolare gli assenti. I membri del parlamento avevano quindi tutto l’interesse a
non restar contumaci, almeno per tentare di opporsi al provvedimento a loro
dannoso, o per dire le proprie ragioni.
8
»
Si tratta dell’applicazione del principio maggioritario che oggi sembra pacificamen-
te accettato, ma che, proprio in materia finanziaria, non si affermò tanto facilmente
in quanto si dibatteva sui confini degli
iura singulorum
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sui quali la maggioranza
non poteva imporre la propria volontà sulla minoranza (noi ora parleremmo di
incomprimibili diritti meritevoli di garanzia costituzionale).
«“Se anche per mille volte la maggioranza afferma che io devo qualcosa
a qualcuno”, si diceva “non per tanto lo dovrò”. Ora questa dottrina riuscì
a farsi strada oltre i suoi limiti originari, ed ebbe più di un’eco nelle proteste
di minoranze parlamentari italiane, francesi, inglesi, tedesche, quando la maggioranza
(la frase è in un documento) votava di “mittere manus ad bursas hominum”
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».
La storia inglese, cioè la storia della culla del parlamentarismo occidentale, non
contiene la negazione del principio maggioritario in materia di spesa, ma gli inglesi,
fin dai primi documenti che hanno redatto, hanno sempre ben messo in chiaro che
il sovrano, per spendere, doveva prima chiedere il permesso al popolo.
Giovanni Senzaterra re d’Inghilterra voleva riconquistare, nei primi anni del XIII secolo,
i possedimenti francesi dei suoi antenati Plantageneti e, per finanziare la necessaria
guerra, torchiò ferocemente ed arbitrariamente i suoi vassalli che non stettero zitti.
Nonostante tutte le spese re Giovanni fu sconfitto nel 1214 a Bouvines e i baroni
inglesi, che il 5 maggio 1215 si erano apertamente ribellati, gli rinnovarono la loro
fedeltà il 15 giugno dello stesso anno solo dopo che il re ebbe giurato di rispettare
la Carta Libertatum
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nella quale, tra l’altro, si legge «Nullus distringatur ad faciendum
majus serviciumde feodomilitis, nec de alio libero tenemento, quam inde debetur.
12
»,
e ancora «Nec villa nec homo distringatur facere pontes ad riparias, nisi qui ab
antiquo et de jure facere debent.
13
»
Quattro secoli dopo Carlo I, che era convinto di dovere solo a Dio le sue tre corone
d’Inghilterra, di Scozia e di Irlanda, pretendeva che spettasse a lui, impegnato nella
guerra dei trent’anni, stabilire quante tasse far pagare al popolo, ma dopo un’aspra
contesa, il 7 giugno 1628 fu costretto a ratificare ed accettare la Petition of rights
(che era stata approvata il 26 maggio dalla Camera dei Comuni ed il giorno dopo da
quella dei Lords) che ribadiva i principi della
Magna Charta Libertatum
.
Dopo qualche altro decennio molto turbolento
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gli inglesi cercarono di trovare una
sistemazione offrendo la corona a Guglielmo (Statolder delle sette provincie Unite
dei Paesi Bassi) e a sua moglie Maria (figlia di Giacomo II); la coppia, il 13 febbraio
1689, deve giurare il
Bill of Rights
che, tra altro, afferma
«That levying money for or to the use of the Crown by pretence
of prerogative, without grant of Parliament, for longer time, or in other manner
than the same is or shall be granted, is illegal
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».
I documenti che i re d’Inghilterra furono costretti ad accettare
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sono i più citati, ma
la contrapposizione tra la volontà di spendere del sovrano e il potere dei suoi
sudditi di limitarne le spese si riscontra ovunque in Europa nel Medio Evo e nell’età
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Più avanti parlerò delle modifiche recentemente introdotte in tale articolo.
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S
ERGIO
R
OMANO
, a pag 53 del
Corriere della Sera
di sabato 7 luglio 2012, ricorda che L
UIGI
E
INAUDI
, proprio in un intervento all’Assemblea costituente, disse: «L’esperienza
ha dimostrato che è pericoloso riconoscere alle Camere tale iniziativa [quella in materia di bilancio, in particolare quella di proporre nuove spese], perché mentre una volta
erano esse che resistevano alle proposte di spesa da parte del Governo, negli ultimi tempi spesso è avvenuto che proprio i deputati, per rendersi popolari, hanno proposto
spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle».
5
La questione è ottimamente trattata da
F
RIEDRICH
A. H
AYEK
,
Tassazione e redistribuzione
in
La società libera
, Formello, Edizioni SEAM, 1998 (ma l’edizione originale
della raccolta risale al 1960), pag 385 - 404 e da P
ASCAL
S
ALIN
,
L’arbitraire fiscal
, Paris, Robert Laffont, 1985, pag 35 – 67.
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K
ARL
M
ARX
e F
RIEDRICH
E
NGELS
,
Manifesto del Partito Comunista
, Torino, Einaudi, 1963, pag 157.
7
E
DOARDO
R
UFFINI
,
Il principio maggioritario – profilo storico
, Milano, Adelphi edizioni, 1976 (ma la prima edizione è del 1927), pag 65.
8
Ibidem
, pag 66.
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“diritti dei singoli”.
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“infilare le mani nelle tasche della gente”,
Ibidem
, pag 67.
11
È l’originaria intitolazione del documento comunemente chiamato
Magna Charta Libertatum
.
12
«Nessuno sarà costretto a un servizio più oneroso di quel che non debba il suo feudo militare od ogni altra libera dipendenza.» per la traduzione vedi
“www.studiperlapace.it”.
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«Nessun villaggio o uomo libero potrà essere costretto a costruire ponti sui passaggi dei fiumi, a meno di esservi obbligato giuridicamente o in virtù di una usanza
immemorabile.» per la traduzione vedi “www.studiperlapace.it”.
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Carlo I fu decapitato nel 1649 e il paese fu governato dal dittatore Oliver Cromwell fino al 1660 quando la monarchia fu restaurata da Carlo II (figlio del primo) cui nel
1685 succedette il figlio Giacomo II che rifiutò di accettare il
Bill of Rights
e fuggì sul continente.
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«Che esigere tributi per la Corona o per il suo uso, con pretesa di privilegio, senza il consenso del Parlamento, per un tempo più prolungato o in un modo diverso da
quello che è stato o sarà stato consentito, è illegale.»
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Quelli citati sono i più noti in quanto considerati pietre miliari nella storia del modello delle democrazie parlamentari occidentali, ma non sono tutti.
Apologia
dell'evasione fiscale
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