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NUMERO 208 - LUGLIO / AGOSTO 2012
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IL COMMERCIALISTA VENETO
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pubblicati riflettono esclusivamente il pensiero degli autori e non impegnano Direzione e Redazione.
Numero chiuso il 27 novembre 2012 - Tiratura 11.600 copie.
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STORIA, STORIE
Cicerone:
pro Marco Coelio oratio
"Immaginiamo, signori Giudici, che qualcuno
che non sia al corrente delle
nostre leggi e dei nostri tribunali ci vedesse oggi, giorno di festa, unici nella città a
lavorare. Questo straniero penserebbe: – Ma quale particolare gravità ha la causa
in corso? L’unica dibattuta in giudizio durante una giornata di pubblici spettacoli,
quando l’attività del Foro è sospesa – ."
E’ l’inizio della difesa di Cicerone nella causa promossa controMarco Celio. Non
era una causa da poco. Marco Celio era accusato di aver partecipato alla
eliminazione di un centinaio di ambasciatori che erano partiti da Alessandria per
denunciare al Senato romano una serie di insostenibili angherie alle quali il
popolo era sottoposto. La vicenda di Marco Celio era all’interno di un complesso
e intricato affare che riguardava l’Egitto. Una bella tangentopoli romana.
Eravamo nell’80 A.C. quando il re d’Egitto Tolomeo Alessandro II, dopo solo
diciannove giorni di regno, è rimasto vittima di una rivolta del popolo di Alessan-
dria. Il re non aveva eredi ed era stato nominato a capo dell’Egitto poco tempo
prima, lasciando un testamento che prevedeva che, alla sua morte, l’erede del
Paese sarebbe stato il popolo di Roma. In sostanza, l’Egitto, allamorte di Tolomeo
Alessandro II, avrebbe perso la sua autonomia e pertanto importantissimo era,
per Roma, trovare un responsabile del ricco paese africano.
Dopo mille difficoltà, e accomodamenti temporanei, nel 59 A.C. viene nominato
re d’Egitto, con la capitale ad Alessandria, Tolomeo Aulete. In cambio di questa
nomina Tolomeo Aulete si impegna a versare la somma enorme di trentasei
milioni di denari a Roma. Non al Senato o ad altra Autorità di Roma, ma
direttamente a Giulio Cesare che aveva imposto la nomina del re. Ovviamente
Tolomeo Aulete, per poter pagare questo importo, ha dovuto ricorrere al presti-
to dei banchieri e ad un forte inasprimento del carico fiscale nel popolo. I
banchieri romani premevano per la sua conferma a re, per il mantenimento dei
suoi privilegi. Il popolo non gradiva l’oppressione che doveva sopportare per
consentire al re di pagare il suo debito. In questo contesto i cittadini di Alessan-
dria decidono di andare a parlare con le autorità a Roma per vedere di risolve-
re il problema del loro popolo. Il gruppo incaricato di questa ambasciata si
componeva di un centinaio di autorevoli cittadini. Avrebbero dovuto andare ad
esporre al Senato le ragioni del popolo egiziano.
Per causa di corruzioni, omicidi e ogni altro sopruso, i cento ambasciatori in
Senato non sono riusciti ad arrivare mai.
Dal 59 al 57 A.C. la situazione a Roma doveva essere peggiore della più grave
delle tangentopoli. Rimane soltanto questa arringa di Cicerone che difende un
cittadino romano coinvolto nella vicenda, avendo contribuito ad impedire l’am-
basciata degli egiziani.
L’arringa di Cicerone è piacevole e comincia quasi prendendo in giro i giudici
che loro, loro soli, in una giornata di festa prendono in considerazione una
vicenda che, secondo Cicerone, era marginale: riguardava solo la corruzione
all’apice politico dello Stato e l’omicidio di un centinaio di ambasciatori. Alla
fine vince Cicerone: Celio viene assolto e Tolomeo Aulete conserva il suo posto
di re d’Egitto.
Peggio, molto peggio di oggi.
Paolo Lenarda
Ordine di Venezia
V
asta eco ha avuto
in questi giorni un emendamento presentato
al Senato sul cosiddetto quarto grado di giudizio, il quale secon-
do alcuni vorrebbe preservare il gruppo Fininvest dall’eventua-
le conferma della sentenza dalla Corte d’Appello di Milano sul lodo
Mondadori, sentenza viziata secondo altri da un evidente errore di
diritto che, se confermato dalla Suprema Corte, non darebbe più spe-
ranze al gruppo del Biscione. Ma può succedere che la Cassazione
prenda una solenne cantonata in diritto e, se ciò accade, vi è qualche
speranza per evitare il brocardo secondo il quale “
Roma locuta causa
finita est
”? Esaminiamo un caso recentemente verificatosi e vediamo di
capire quali potrebbero essere i rimedi. La Suprema Corte, chiamata ad
esprimersi, assieme ad altro, sul diritto al rimborso dell’eccedenza di
versamenti effettuati in corso di giudizio rispetto al dovuto per sanatoria
delle liti pendenti ex art. 16 L. 289/2002, con la sentenza n. 5845 del 21
febbraio di quest’anno, depositata il successivo 13 aprile, si è pronun-
ciata testualmente come segue:
<“Fuori dai casi di soccombenza
dell’Amministrazione”, la definizione della controversia mediante con-
dono non dà luogo alla restituzione delle somme già versate>
, ribaltan-
do, sulla base di tale motivazione, due gradi di merito favorevoli alla
parte ricorrente per il suddetto rimborso. Peccato che la norma in que-
stione (art. 16 c. 5 della Legge 289/2002) nella sua completezza reciti
invece: “
Fuori dai casi di soccombenza dell’Amministrazione Finan-
ziaria dello Stato
previsti al comma 1, lettera b)
, la definizione non dà
comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché
eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della
definizione stessa
”; laddove i casi previsti dal
comma 1, lettera b)
suddetti riguardano le liti il cui valore è di importo superiore ai 2.000
euro. In definitiva, la Cassazione ha applicato la norma citata esatta-
mente al contrario dell’intento del legislatore, che era quello di escludere
la restituzione dell’eccedenza solo per le liti di importo minore (fino a
2.000 euro), caso che non è il nostro essendo le liti definite, nel caso di
specie, tutte di importo superiore a tale limite. La topica sembra evi-
dente; ma, a questo punto, di quali strumenti potrebbe disporre il
malcapitato contribuente per vedere riconosciuto il proprio diritto?
Un altro noto modo di dire rimanderebbe a Berlino
(ove arrivò la
tenacia del mugnaio di Potsdam che, nel ‘700, opponendosi al sopruso
di un nobile e dopo essersi rivolto invano a tutte le corti di giustizia
germaniche per avere “giustizia”, volle scomodare perfino Federico il
Grande); ma forse, in prima battuta, basterebbe ancora restare in Italia.
Secondo un’interpretazione plausibile, infatti, l’evidente errore di let-
tura della norma, costituendo un errore di fatto rilevante ex art. 395, n.
4, c.p.c., potrebbe rientrare nei casi per i quali è ammessa la revocazione
della sentenza; in questo caso, il termine per proporre il relativo ricorso
sarebbe quello di 60 giorni dalla notifica, ovvero di un anno dal suo
deposito. In alternativa, prima di arrivare a Berlino sarebbe opportuno
fare sosta a Strasburgo, rivolgendosi eventualmente alla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo per invocare la violazione dell’art. 1 del ProtocolloAddi-
zionale alla Convenzione in tema di protezione della proprietà. In questa
ipotesi, il termine d’impugnazione sarebbe di sei mesi dall’ultima pronun-
cia giurisdizionale nazionale. Chi scrive, non essendo un giurista, pone
ovviamente queste due ipotesi come puramente di studio, non azzardando-
si a presentarle di certo per oro colato. Certo è che casi come quello descrit-
to in questo articolo gridano vendetta anche perché, in momenti di crisi
come l’attuale, il rimborso di un credito da parte dell’Amministrazione
Finanziaria, seppure tardivo, può alle volte rappresentare l’ancora di sal-
vezza a cui un’impresa si aggrappa per sfuggire al fallimento.
Roma locuta
e il mugnaio di Potsdam
Claudio Polverino
Ordine di Gorizia