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NUMERO 217 - GENNAIO / FEBBRAIO 2014
IL COMMERCIALISTA VENETO
si sarebbe manifestata laddove, qualora un socio aves-
se venduto ad un socio sgradito, poteva scattare un
meccanismo per cui l’assemblea dei soci ed il consiglio
di amministrazione, negando il gradimento, si obbliga-
vano ad acquistare quelle partecipazioni ad identiche
condizioni. Proprio questo gradimento alla francese è
quello che, alla fine, è stato recepito dal legislatore
della Riforma del 2003, il quale non guarda più con una
scure di invalidità o di inefficacia le clausole di mero
gradimento, però prevede – all’art. 2355 bis c.c., per le
società per azioni, ed all’art. 2469 c.c., per quanto
riguarda le società a responsabilità limitata – che, nel
caso di limiti di questo tipo alla circolazione delle azioni,
nelle S.r.l., il socio possa recedere, nelle Società per
azioni, la società debba trovare un acquirente alterna-
tivo alla partecipazione.
Per cui, di per sé, la clausola di gradimento non è
invalida, salvo che, nel caso della S.r.l., agevola il recesso
e, nel caso della S.p.A., obbliga chi neghi il gradimento
a trovare un nuovo acquirente oppure a fare in modo
che la società acconsenta un recesso oppure – attra-
verso il meccanismo dell’acquisto di azioni proprie –
compri quelle azioni che altrimenti sarebbero state
destinate al socio non gradito.
Per quanto sopra, rispetto alle clausole di gradimento,
io francamente non vedo nessuna ragione al mondo (e
torno al
fil rouge
che vorrà caratterizzare questa no-
stra conversazione) per la quale
parasocializzare
: tut-
to sommato, un accordo parasociale attraverso il quale
i parasoci pongano dei limiti al gradimento, mi sembra
di difficile realizzazione tenuto conto che, comunque,
anche nel caso di limiti alla circolazione delle azioni,
vige il termine di 5 anni.
Vi potrebbe essere un tema per quanto riguarda la S.r.l.,
laddove il recesso, per legge, può essere bloccato per due
anni; mentre, in realtà, attraverso un patto tra parasoci,
questo termine potrebbe essere allungato a 5. Però è
pur vero che, per quanto riguarda la S.r.l., le norme
relative ai patti parasociali riguardano soltanto le S.r.l.
capogruppo e non le S.r.l. che non siano capogruppo.
Allora, rispetto ad un tema di questo tipo, francamen-
te non vedo la ragione per la quale io debba
rischiare
un patto parasociale con tutti i conseguenti dubbi,
quando il Legislatore, attraverso una sedimentazione
di anni, ha regolato il medesimo tema in maniera asso-
lutamente ragionevole.
Clausole di prelazione
Tutti sanno che il meccanismo della prelazione
societaria funziona come qualunque prelazione: Tizio
vende a Caio un bene; a parità di condizioni, Sempronio
esercita la prelazione e compra detto bene.
In realtà, in ambito societario, il tema della prelazione è
un po’ più complicato perché – e cercherò poi di esem-
plificare delle situazioni anomale – ad esempio, è possi-
bile che Tizio convenga conCaio di vendere il bene ad un
prezzo esorbitante; magari un prezzo sul quale Tizio e
Caio si sono accordati in modo surrettizio, per attraver-
sare la prelazione, e Sempronio, che vorrebbe esercitare
detta prelazione a quel prezzo, si trova
bypassato
in
virtù di un accordo di fatto non lecito tra i due primi
soggetti. Oppure, ancora, è possibile che Tizio e Caio si
siano accordati che Tizio consegnerà il bene sottoposto a
prelazione a fronte della cessione di un altro bene.
In realtà, in passato, l’arbitraggio sul valore delle quo-
te, la cosiddetta prelazione impropria, era talvolta af-
fermata e, più spesso, negata: non c’erano orienta-
menti molto chiari per il caso di trasferimento di quote
e azioni attraverso contratti diversi dalla compraven-
dita, come la permuta, la donazione, il conferimento e
quant’altro. Vi era anche una certa resistenza da parte
della giurisprudenza all’introduzione a maggioranza
negli Statuti delle clausole di prelazione: in linea di
massima, fino agli anni ’80/’90, la giurisprudenza ten-
deva a dire che, rappresentando la prelazione un vin-
colo alla circolazione delle quote che andava ad incide-
re sul diritto individuale del socio (quindi, non sul
meccanismo di funzionamento della società), le clau-
sole di prelazione o erano pattuite all’origine o erano
pattuite all’unanimità, ma non potevano essere intro-
dotte a maggioranza.
Tutto questo, però, ora fa parte di un lontano passato.
Oggi, in realtà, questi dubbi non sussistono più (maga-
ri la rondine che fa primavera c’è sempre) e sono risol-
ti dalle indicazioni della dottrina giuscommercialistica.
Tutte le clausole di prelazione, quindi, possono esse-
re, con una certa agilità e senza dubbi di legittimità,
introdotte nello Statuto.
E’, così, ritenuto lecito l’arbitraggio: è possibile inseri-
re nello Statuto una clausola in virtù della quale, se il
soggetto avente diritto a prelazione ritiene che il prez-
zo pattuito tra l’acquirente ed il venditore sia un prez-
zo non accettabile, perché ad esempio esagerato, ha
facoltà di sottoporre la valorizzazione delle azioni ad
un meccanismo peritale.
Sono, altresì, ritenute sicuramente lecite le clausole di
prelazione che, proprio attraverso il meccanismo del-
l’arbitraggio, risolvono il problema di trasferimenti
azionari attuati attraverso negozi diversi dalla com-
pravendita. Ad esempio, in caso di permuta di azioni,
il socio che abbia diritto alla prelazione ha la possibi-
lità di chiedere un arbitraggio sul valore della quota ed
esercitare la prelazione anche rispetto a negozi di que-
sto tipo; cosa che, in precedenza, non succedeva.
Rimangono aperte alcune questioni che, tuttavia, pos-
siamo tranquillamente appostare nel sociale e non nel
parasociale. Questioni che brevemente sottopongo alla
Vostra attenzione perché, in realtà, possono avere un
forte impatto pratico.
È
LECITA UNA PRELAZIONE, sia essa
parasociale o sociale, a più gradi. E’ lecito,
dunque, prevedere, subordinatamente tra
esse, la prelazione n. 1, la prelazione n. 2 e la
prelazione n. 3?
Vi faccio un esempio che rappresenta un caso, ahimè,
assai più frequente di quello che si pensi e che crea
delle situazioni assolutamente sgradevoli.
Società fondata da Tizio e Caio, ciascuno al 50% (sono
piene le nostre terre di aziende nate dall’iniziativa di
Tizio e Caio che hanno fondato una società, rimanen-
do al 50% ognuno e quindi, sostanzialmente, in una
posizione nella quale ciascuno può porre un veto alla
decisione dell’altro).
Tizio e Caio crescono e hanno ciascuno due figli. A
questo punto, uno dei figli decide di vendere. Attraver-
so il meccanismo della prelazione che può essere eserci-
tata da tutti, il gruppo familiare del primo socio si trova
ad andare in maggioranza perché, naturalmente, avendo
tutti quanti un identico diritto di prelazione, è ovvio che
la prelazione viene parimenti esercitata sia dal fratello
del
traditore
che vuole vendere, sia dagli altri; per cui, gli
altri se prima erano al 50% vanno in maggioranza e
viene meno quello che (giusto o sbagliato che fosse) era
lo spirito iniziale del rapporto paritario tra soci.
Posso risolvere questo problema sia con una
pattuizione parasociale, ma – ancor meglio – con una
pattuizione sociale, la quale preveda una prelazione di
primo grado riservata ad una certa categoria di soggetti
(il gruppo familiare di appartenenza del socio
tradito-
re
) e poi, laddove i soggetti che fanno parte di quel
gruppo non intendano esercitarla, una prelazione che
andrà, in seconda battuta, su tutti.
Viene conservata, così, quella che è una delle finalità
proprie del diritto di prelazione: lasciare inalterata, in
caso di cessioni, la caratura sociale. Una clausola di tal
genere ritengo sia assolutamente lecita, sia a livello
parasociale, sia – ed amaggior ragione – a livello sociale,
oltretutto con il vantaggio della opponibilità ai terzi.
Seconda ipotesi – nella quale, secondo me, in realtà, un
accordo parasociale è preferibile – è quella della
prelazione potenzialmente violata al
piano superiore
.
Mi spiego: il prof. De Poli ed io siamo soci di una
società, solo che io vi partecipo attraverso una mia
S.r.l.. Vi è un patto di prelazione tale che, se io dovessi
vendere la quota con la quale partecipo assieme al
prof. De Poli alla società, io dovrei offrire agli altri soci
la prelazione. Ma se io vendo la mia S.r.l., cioè faccio
una vendita
al piano di sopra
, non sono vincolato alla
prelazione che mi vincolerebbe, invece, nella società
alla quale partecipo.
A questa situazione – che, anch’essa, è molto più fre-
quente di quanto non si immagini – si cerca di porre
rimedio (però, secondo me, in un modo insufficiente e,
per questa ragione ed in questo specifico caso, ritengo
preferibili gli accordi parasociali) attraverso una clau-
sola di cambio di controllo: se il socio è una società di
capitali, la circostanza che muti il controllo nella so-
cietà di capitali, vale a creare un’opzione di acquisto in
favore degli altri soci.
Però queste clausole, a mio modo di vedere, sono mol-
to difficilmente negoziabili ed articolabili all’interno
dello Statuto.
Quindi questo, per quanto riguarda il tema dei patti
parasociali relativi al trasferimento di partecipazione,
secondo me, è uno dei pochi casi nei quali un accordo
che sia adeguatamente sanzionato e penalizzato tra
parasoci, è più utile a garantire che un socio non cerchi
di raggirare un patto attraverso un’operazione che, di
per sé, è lecita (perché nessuno può vietare a me di
vendere le quote della mia S.r.l.), ma che sostanzial-
mente è indirizzata a
bypassare
un accordo sociale di
prelazione raggiunto con gli altri soci.
D
UE ULTERIORI SITUAZIONI che desi-
dero richiamare alla Vostra attenzione sono
le seguenti.
Abbiamo già detto che è lecito prevedere un
meccanismo di arbitraggio sulle quote. Vi possono essere
delle situazioni in cui un socio vende la sua quota ad un
prezzo assai elevato (non per
raggirare
gli aventi diritto
alla prelazione, ma) perché, ad esempio, l’acquirente ha
uno specifico interesse a quel bene, ed è quindi disponi-
bile a pagarlo ad un prezzo superiore rispetto a quello
che, ragionevolmente, sarebbe il valore di mercato.
A fronte del prezzo comunque elevato, gli altri soci,
aventi diritto alla prelazione, invocano l’arbitraggio.
In questo caso, secondo le regole generali che abbiamo
sopra detto, vi è il rischio che il socio possa essere
costretto a vendere la sua quota ad un prezzo che, in
realtà, non corrisponde a quello che – al di fuori di
qualunque tentativo di raggiro – il medesimo socio
riteneva corretto. Si ritiene che il corrispettivo/
correttivo dell’arbitraggio, cioè il correttivo dell’arbi-
trato così detto improprio, sia quello di una sorta di
diritto di
pentimento
: di fronte ad una valutazione non
corretta del bene che io lecitamente ritenevo di vende-
re ad un determinato prezzo, io ho il diritto di tornare
indietro e di non dare corso alla vendita.
Tutto questo è agevolmente disciplinabile – come ri-
peto, salvo il problema del cambio di controllo, che in
realtà diventa un problema un po’ delicato – attraver-
so una normale clausola statutaria, un po’ articolata,
che richiede unminimo di attenzione redazionale; però,
tutto sommato, non è così difficile da concepire.
Limiti alla vendita di azioni: i c.d. sindacati di blocco
Ora io sono assolutamente d’accordo con il prof. De
Poli quando egli dice che i patti parasociali sono degli
accordi civili regolati dalle norme del codice civile.
E le norme del codice civile mi dicono (ed in specifico
l’art. 1379 del c.c., norma dettata in tema di contratti)
che i divieti di alienare sono validi, purché contenuti
entro ragionevoli limiti di tempo e purché rispondano
ad un apprezzabile interesse. Serve, cioè, che ci sia
una motivazione che rende ragionevole la limitazione
contrattualmente posta alla vendita di un bene.
Il diritto di proprietà contempla il diritto di godere e di
disporre del bene. Io lecitamente posso, per contratto,
limitare il mio diritto di disporre del bene; però non
posso vincolarmi per sempre a non vendere il bene,
perché questo vorrebbe dire autoconfiscarmi illegitti-
mamente, attraverso un contratto, un diritto reale qua-
le è la proprietà.
Tutto questo, evidentemente, si applica anche ai sin-
dacati di blocco, cioè a tutti quanti quegli accordi attra-
verso i quali io mi auto-limito la possibilità di vendere.
Ciò impone anzitutto – questa è una regola, secondo
me, imprescindibile di tecnica redazionale – che, nel
momento in cui io mi impegno a non vendere, mi devo
impegnare per un certo periodo di tempo, che sia ra-
gionevole (io sono convinto che siano cinque anni; poi
cerco di chiarire il perché) e debbo spiegare perché
pattuisco di non vendere.
Questi patti si fanno, di solito, almeno nella mia espe-
rienza professionale, ma credo nell’esperienza pro-
I PATTI
PARASOCIALI
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