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NUMERO 215 - SETTEMBRE / OTTOBRE 2013
IL COMMERCIALISTA VENETO
Non basta il concordato preventivo cosiddetto
"in bianco" per uscire dalla crisi
PROCEDURE CONCORSUALI
EZIO BUSATO
Ordine di Padova
C
HE L’ACCESSO ALLA PROCEDURA del concordato preventivo così det-
to
“in bianco”
o
“con riserva”
, oggi il più gettonato, dia dei vantaggi almeno
temporanei al debitore è fuori di dubbio, ma che questo nuovo istituto possa
rappresentare lo strumento base per uscire da una situazione di crisi economico-
finanziaria delle aziende, come oggi è comunemente inteso, è da escludere, almeno in
linea generale. Visto il frequente uso distorto e strumentale del nuovo istituto
concordatario, che ha praticamente messo in crisi le strutture giudiziarie fallimenta-
ri e penalizzato fortemente i creditori, bloccati per alcuni mesi dal poter esercitare
le azioni esecutive sul patrimonio del debitore, il Governo ha introdotto d’urgenza
nel recente
“Decreto Fare”,
approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 15
giugno 2013, alcune modifiche migliorative.
Il debitore ricorrente dovrà depositare con la domanda un elenco dei creditori e dei
propri debiti, oltre ad una situazione finanziaria mensile dell’impresa che viene
pubblicata nel Registro delle Imprese. Il Giudice potrà nominare sin da subito (e qui
sta la novità più interessante!) un commissario giudiziale per verificare se in realtà
è in atto un processo serio di concordato e potrà cancellare gli effetti protettivi
concessi al debitore in caso di comportamenti dannosi per i creditori. Queste nuove
misure, almeno sulla carta, dovrebbero garantire maggiormente i creditori sulla
serietà e sulla fattibilità di una proposta concordataria ed escludere in partenza tutti
quei tentativi che nascondono manovre strumentali.
Rimane comunque il fatto che, anche dopo l’introduzione di questi ultimi corretti-
vi, le misure attualmente vigenti, quali risultano a seguito delle varie riforme appro-
vate dal 2005 in avanti, non appaiono adatte a gestire efficacemente la situazioni di
crisi d’impresa, a maggior ragione in un contesto come quello che stiamo vivendo,
comunque legato ad una ripresa economica di cui non si percepiscono ancora suffi-
cienti segnali. Sul punto, appaiono concordi tutti gli attori della crisi, dalle banche
ai creditori, dai giudici ai professionisti.
Le norme sul concordato preventivo c.d. “in bianco”, “ordinario” o “con continui-
tà” che sia, o gli “accordi di ristrutturazione del debito” previsti dalla legge fallimen-
tare, non sono strumenti adatti a risolvere “in radice” il problema dell’insolvenza
dell’impresa, problema che invece andrebbe affrontato in sede gestionale e produttiva
attraverso l’attuazione, in tempi non certamente brevi, di un piano di risanamento o di
ristrutturazione che risulti veritiero ed attuabile, nel quale la soluzione della composi-
zione giudiziale della crisi può rappresentare solo una delle possibili componenti.
L’ottica che andrebbemaggiormente valorizzata e seguita nelle soluzioni negoziali della
crisi sarebbe dunque quella aziendalistica, mentre quella giudiziaria dovrebbe rappre-
sentare una mera opportunità concessa al debitore di ottenere un
bonus
dai creditori, in
vista di una continuità aziendale e nell’interesse generale di tutte le parti in causa.
Per non arrivare impreparate alla gestione di una crisi, le aziende dovrebbero puntare di
più alla “prevenzione” di situazioni di declino o di difficoltà, attraverso l’utilizzo
costante di ordinari strumenti di misurazione dei dati economici e finanziari, ovvero
attraverso adeguati studi sul ciclo di vita dei prodotti o sulle dinamiche del settore di
appartenenza. Gli strumenti fondamentali di controllo in contesti di crisi ci sono, basta
attivarli. Meglio prevenire che curare, dicono i medici. Vale lo stesso per le aziende.
Una volta individuato uno stato di declino o di crisi congiuntamente ad un piano
organico di risanamento, andrebbero prese in esame nuove modalità di fare impresa,
promuovendo per esempio aggregazioni, reti di impresa e partenariati con l’obiettivo
del recupero dell’economicità e dell’efficienza, e dello sfruttamento di sinergie; un tanto,
comunque, dopo una attenta riflessione sulle cause e sullo stato della crisi e dopo una
valutazione obiettiva in merito alla propria struttura aziendale e/o produttiva.
Ritornando al concordato preventivo, non si può non chiedersi se il beneficio riserva-
to al singolo imprenditore in difficoltà che presenti la domanda in Tribunale valga il
sacrificio di centinaia di altre aziende creditrici alle quali viene chiesto il voto e – se si
– in quale misura. La risposta spazia su due fronti, uno economico e l’altro sociale. Le
finalità dell’istituto, rivolte soprattutto al salvataggio dei posti di lavoro, del
know
how
aziendale, dei rapporti con i clienti e con i fornitori, dei valori materiali ed
immateriali in genere, vanno infatti misurate con il sacrificio chiesto al ceto creditorio.
Come detto, il ricorso alle procedure di salvataggio previste dal diritto fallimentare
può certamente aiutare, ma non sempre (o meglio quasi mai) esso risolve i problemi
della continuità di una impresa.
L’uscita dalla crisi ed il
ritorno al valore
di una impresa dipendono in realtà da
fattori quali il tempo per poter organizzare un programma di risanamento attuabile
e concreto, la strategia di rilancio e le risorse finanziarie disponibili per evitare
disgregazioni organizzative e per garantire un supporto economico ed organizzativo
al progetto. In questa ottica il concordato con continuità introdotto dall’art. 186 bis
della L.F. dovrebbe rappresentare lo strumento principale della soluzione alla crisi
di impresa o quantomeno quello che dovrebbe maggiormente garantire le parti in
causa e giustificare il sacrificio del ceto creditizio.
Pensando alla crescita
Le soluzioni della composizione giudiziale della crisi andrebbero prese pensando
alla crescita e agli strumenti per percorrerla.
Le recenti criticità sorte dall’applicazione degli strumenti esistenti, riferite soprat-
tutto all’istituto del concordato preventivo cosiddetto “in bianco” o di “pre-con-
cordato”, anche se oggi rivisto, hanno messo in chiara evidenza che il Legislatore
non è ancora riuscito, a distanza di circa settant’anni dall’entrata in vigore della
legge fallimentare, a regolare con economicità per il sistema e con equità per le parti
lo stato di crisi delle aziende che si presentano in Tribunale per chiedere un aiuto ai
creditori e allo Stato, garantendo la ripresa dell’attività. Si fa sempre più concreta
l’idea di riproporre (come aveva già fatto, purtroppo senza successo, la commis-
sione Trevisanato in sede di progetto di riforma del 2005), l’istituto “di allerta” che
ben funziona in altri paesi europei come in Francia.
Ci viene riferito che oltre il 70% delle domande di concordato preventivo c.d. “in
bianco” (oramai di quello ordinario non se ne fa più uno) che vengono presentate
presso il Tribunale di Milano, ma in genere presso tutti i Tribunali italiani, è
rappresentato da aziende praticamente già fallite, le quali chiedono allo Stato un
ombrello protettivo dalle azioni dei creditori in cambio di una promessa tutta da
verificare, cioè quella di presentare una proposta che prevede di pagare i creditori
con percentuali il più delle volte irrisorie (si parla del 5-10%). In proporzione pochi
sono i concordati che si risolvono con una ristrutturazione aziendale vera e propria
o comunque con finalità conservative del patrimonio e dell’attività produttiva o
commerciale. La maggioranza delle procedure hanno finalità liquidatorie, come con-
fermano le informazioni provenienti dai Tribunali italiani.
Peraltro, anche nei casi più nobili di procedure che effettivamente mirino alla
preservazione delle aziende e dei loro valori tangibili ed intangibili, è quanto meno
discutibile che davanti ad un “bonus” concordatario generalmente elevato, da una
parte si salvi un’impresa se pur meritevole, ma dall’altra se ne pongano in crisi
moltissime altre, costrette magari a loro volta a ricorrere a procedure concorsuali
per la perdita subita, creando così un “effetto domino” devastante. Qui si inserisce
il problema che molti hanno sollevato delle percentuali minime garantite ai creditori
nei concordati e più in generale della struttura stessa del concordato, sempre co-
munque fondato sulla
par condicio
e sul rispetto dell’ordine dei privilegi.
Il problema dell’accesso alle procedure per le P.M.I.
Va infine considerato che le Piccole e Medie Imprese come è la stragrande maggio-
ranza delle imprese nel nostro territorio (e non solo), hanno difficoltà ad accedere ai
nuovi istituti di risanamento giudiziario, più adatti invece alle aziende di una certa
dimensione. Si renderebbe perciò utile che il Legislatore ripensasse ad una procedu-
ra più snella e più adattabile per le piccole e medie imprese in difficoltà, affinchè
possano accedere ai concordati preventivi soprattutto a costi più contenuti e trova-
re una soluzione alla loro crisi in tempi più rapidi. Non dimentichiamo che in pochi
mesi di procedura concorsuale si “brucia” l’avviamento di anni, motivo per cui le
risposte fornite da una soluzione negoziale della crisi dovrebbero essere molto più
repentine. In particolare, appare sempre più rilevante il problema dei costi
per l’ac-
cesso alle procedure riferiti sia a quelli professionali (attestazioni, domanda,
advisor
,
perizie, legali ecc..), che a quelli richiesti dal Tribunale con il deposito della domanda.
A volte l’ingente importo di questi costi demotiva gli imprenditori ad affrontare un
percorso giudiziario di risanamento, proprio a causa delle carenze di liquidità e dello
stato di crisi in cui si trovano, costringendoli a dare priorità per esempio al pagamento
di salari e stipendi, dell’energia, dei fornitori o delle imposte non versate con rilevanza
penale, anziché percorrere la strada giudiziale.
Le proposte
Sarebbe utile perciò nell’interesse di tutti:
a)
introdurre una nuova forma di concordato preventivo per le P.M.I.
b)
introdurre una specifica tariffa o dei parametri di riferimento per gli attestatori
dei piani e per gli
advisor
, commisurati ai valori in gioco, onde evitare che per casi
e valori simili si abbiano costi professionali sensibilmente diversi;
c)
garantire comunque la prededucibilità dei compensi dei professionisti coinvolti
nella pratica, venuta meno, in certe situazioni, con l’abrogazione del comma 4 dell’art.
182 quarter della L.F., in alternativa riservando al Tribunale, per esempio, la nomina
dell’attestatore, oppure istituire un albo degli attestatori specializzati nella materia
presso il Tribunale di competenza al quale le aziende possano fare riferimento;
d)
ridefinire i limiti di punibilità penale in capo agli attestatori riformando
l’art. 236 bis della L.F. del falso in attestazioni e relazioni;
e)
ridurre tutta una serie di adempimenti e di obblighi per gli imprenditori
richiedenti che renderebbe più snella e più flessibile la procedura e quindi, di conse-
guenza, anche i costi di accesso alle procedure, fatto che consentirebbe maggior-
mente, anche alle aziende di piccola o media dimensione, il ricorso alle stesse.
I tempi si stringono e le aziende sono sempre più in affanno, in cerca di nuove
soluzioni produttive, commerciali e di nuovi mercati.
La priorità è quella dei salvataggi “sostenibili” accompagnati da norme chiare e
facilmente applicabili e a costi compatibili con le risorse disponibili e con l’attuale
stato di crisi. Sarebbe comunque utile operare sulla concretezza, sulla serietà dei
progetti e sulla condivisione di un intero progetto di risanamento da parte degli
attori in causa, garantendo maggiormente sia la classe professionale nei ruoli e nelle
funzioni di pubblica utilità ad essa attribuite, che le imprese sane realmente ed
effettivamente interessate alla soluzione degli stati di crisi.