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NUMERO 215 - SETTEMBRE / OTTOBRE 2013
IL COMMERCIALISTA VENETO
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Cfr. Cass. 24.11.2010, n. 23873. In senso contrario, cfr. Cass. 27.1.2012, n. 1166; Cass. 20.10.2011, n. 21759; C.T.R. Roma 29.11.2012, n. 311/38/12 e C.T.P. Cosenza
7.4.2010, n. 189/7/10.
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Come peraltro era stato precisato dalla stessa Agenzia delle Entrate con la Circ. 32/E/2006. Nella stessa circolare, peraltro, l’Agenzia ha dimostrato di rendersi ben conto che
la formulazione della disposizione parrebbe voler trasformare (automaticamente) «movimentazioni passive» (o in uscita), quali sono tipicamente i prelevamenti, da costi/spese
a ricavi/compensi; ed ha pertanto invitato gli Uffici periferici procedenti, sotto il profilo operativo, ad astenersi «da una valutazione degli elementi acquisiti (…) particolarmente
rigida e formale, tale da trascurare le eventuali dimostrazioni, anche di natura presuntiva, che trattasi di spese non aventi rilevanza fiscale».
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Cfr. C.T.P. Macerata 7.11.2012, n. 247: “Si pensi ad un commerciante che, da un conto bancario a sua disposizione, prelevi 100 mila euro per acquistare abbigliamento che
poi sarà venduto con un incasso di 150 mila euro, versato sullo stesso conto bancario. La realtà è che ci sono ricavi per 150 mila euro e costi per 100 mila euro. Tale situazione,
accertata analiticamente o induttivamente, porterebbe l’Erario a tassare 150 mila euro come ricavi imponibili, mentre i costi rimarrebbero neutri (in quanto non deducibili).
Invece il meccanismo originario degli accertamenti bancari individuerebbe ricavi per 250 mila euro (versamenti più prelevamenti) e riprenderebbe a tassazione l’intera somma
senza detrarre alcunché. Un risultato irrealistico, al di fuori dei canoni del buon senso, e inaccettabile a confronto con il diverso risultato ottenibile con l’altra metodologia di
accertamento”. Per i giudici, infatti, “non appare ragionevole ritenere, nei casi in cui vengano rinvenute movimentazioni bancarie non giustificate sia in entrata che in uscita,
che i prelevamenti debbano far presumere l’esistenza di ricavi ulteriori e diversi rispetto a quanto rinvenuto tra i versamenti: non c’è nulla da presumere, se i ricavi in nero
vengono anch’essi rinvenuti nel conto del soggetto. Dovrà anzi correttamente ritenersi che i prelevamenti costituiscano i costi sostenuti per ottenere i versamenti / ricavi
rinvenuti nei conti bancari stessi”.
nuita dal giudice in forza di una deduzione
forfetaria di costi non documentati
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(a meno che
non si tratti di accertamento induttivo
extracontabile
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), dato che spetta al contribuen-
te – per effetto dell’inversione dell’onere della
prova – dimostrare la sussistenza e consistenza
di detti costi: e ciò nonostante l’accertamento
porti, per contro, alla determinazione di ricavi “pre-
sunti” …
Senza contare che, per effetto dell’automatismo
prelevamenti = ricavi / compensi, l’accertamento
finanziario porterebbe ad un risultato peggiore
per il contribuente rispetto a quello ottenibile con
un ordinario accertamento analitico o induttivo
basato su altre metodologie: e
“non è ragione-
vole né accettabile che lo stesso fenomeno eva-
sivo produca conseguenze diverse a seconda
del diverso strumento che venisse utilizzato per
scoprirlo”
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;
-
in particolare, con riferimento alle attività
di lavoro autonomo (cui la presunzione è stata
estesa per effetto della Legge Finanziaria per il
2005, che ha introdotto l’inciso “
compensi
” ac-
canto ai “
ricavi
”): per la quale l’eventuale «com-
penso» non dichiarato potrebbe essere indotto
da un versamento (o da una riscossione) ma non
certo da un prelevamento (o da un pagamento).
Far discendere «automaticamente» dalle opera-
zioni di prelevamento (che, di per sé, costituisco-
no espressione di una spesa) compensi profes-
sionali non dichiarati è, come da più parti sottoli-
neato sin dall’introduzione della modifica nor-
mativa, irragionevole: non solo perché per i pro-
fessionisti vige il principio di cassa, in base al
quale si considerano i compensi materialmente
percepiti e le spese effettivamente sostenute nel
periodo d’imposta, per cui ad un prelevamento
rilevato in un determinato esercizio non può es-
sere – seriamente – associato un compenso per-
cepito nello stesso esercizio, proprio per il rilievo
«autonomo» che - in presenza del «principio di
cassa» - hanno gli incassi (= compensi) e i paga-
menti (= spese); ma anche perché, diversamente
da quanto accade nella realtà imprenditoriale,
dove è plausibile che ad un acquisto di beni «in
nero» corrisponda una cessione degli stessi sem-
pre «in nero» o ad un acquisto di materie prime in
evasione corrisponda una cessione di prodotti
finiti in evasione, non esiste – per il professioni-
sta – una correlazione diretta tra le spese (gene-
rali o generiche) dallo stesso sostenute e i com-
pensi (specifici) percepiti a fronte delle presta-
zioni di servizi fornite, dal momento che non ne-
cessariamente un prelevamento viene effettuato
per sostenere un costo che, a sua volta, genera
un investimento o un compenso rilevante ai fini
dell’attività professionale. Senza contare che per
un lavoratore autonomo è talvolta difficile sepa-
rare nettamente l’attività professionale dalle pro-
prie esigenze personali, per cui anche fornire la
prova contraria diventa arduo.
Ed è proprio per tali ragioni che la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 32, co. 1, n. 2 –
nella parte relativa ai prelevamenti e all’estensio-
ne della presunzione anche ai professionisti – è
stata nuovamente portata all’attenzione della
Corte Costituzionale, per contrasto (per quanto
qui interessa) con agli artt. 3 e 53 della Costitu-
zione. Per la C.T.R. del Lazio (Ord. 10.6.2013, n.
27), infatti, il dubbio di costituzionalità si pone
sotto un duplice profilo:
-
per il reddito da lavoro autonomo, non
possono valere le considerazioni presuntive,
circa il binomio costi-ricavi, tipiche del reddi-
to d’impresa, in quanto l’attività di lavoro au-
tonomo è completamente svincolata dal princi-
pio bilancistico
de quo
, cosicché alcuna dop-
pia presunzione prelevamenti-costi e costi-com-
pensi professionali può sussistere
in parte qua”.
La norma, in tal senso, deve ritenersi
“irraziona-
le e irrispettosa del principio della capacità
contributiva del lavoratore autonomo, nella
misura in cui, neanche il riconoscimento di co-
sti percentualizzati possa dirsi ragionevole
ristoro,dinanzi alla rettifica di maggiori com-
pensi fondata su una presunzione di legge non
valida. Secondo l’
id quod plerimque accidit,
in-
fatti, il professionista si trova a sostenere dei
costi atti a concorrere alla formazione del red-
dito di lavoro autonomo, senza che agli stessi
seguano compensi, tantomeno in pari misura”
.
È evidente, pertanto, che l’aggiunta normativa di
cui alla L. 311/2004 non ha tenuto conto delle
differenze tra le due tipologie di reddito (d’impre-
sa e di lavoro autonomo);
-
“in ogni caso, anche a voler estendere
la correlazione costi-ricavi anche ai redditi di
lavoro autonomo, occorre comunque osservare
la inidoneità della presunzione prelevamenti-
costi a rappresentare in via presuntiva anche
la sussistenza di un reddito d’impresa”
. Anche
in tale comparto, infatti,
“il costo si è completa-
mente affrancato dal classico binomio
bilancistico con i ricavi, essendo ormai
ius
receptum
la riconducibilità di tutti i costi soste-
nuti dall’impresa e che siano utili anche in via
mediata ed indiretta alla stessa, al reddito d’im-
presa, a prescindere dal legame diretto ed im-
mediato con la produzione di ricavi”
. Per tale
ragione, anche con riferimento al reddito d’im-
presa
“la deduzione prelevamenti-costi è
inidonea a rappresentare una ulteriore dedu-
zione costi-ricavi, laddove anche la ragione
dell’eventuale sostenimento di costi nell’ambi-
to dell’impresa non comporta la necessaria ed
automatica produzione di ricavi nell’anno d’im-
posta nella stessa misura del costo sostenuto,
essendo plurime le componenti del reddito d’im-
presa”
.
4.
Conclusioni.
Alla luce di quanto in precedenza esposto, emer-
ge con chiarezza la necessità di intervenire anco-
ra in una materia che – nonostante le ripetute
modifiche susseguitesi nel tempo – è ancora
foriera di interpretazioni controverse e di effetti
sproporzionati rispetto all’esigenza di una giu-
sta tassazione.
Un tanto per rendere più equilibrato – nei con-
fronti del contribuente – e corretto – nei rapporti
tra questo e l’Ente impositore – uno strumento di
accertamento indubbiamente invasivo e, così
com’è ora formulato, lesivo del principio di capa-
cità contributiva e del diritto di difesa, dal mo-
mento che spesso viene pretesa una prova che –
per l’eccessiva specificità e per il grado di certez-
za di cui è richiesto sia connotata – si dimostra
“diabolica”, ancorché in giurisprudenza sia sta-
to riconosciuto come rilevante il criterio di “ra-
gionevolezza”.
Nel frattempo – e in attesa di conoscere le deter-
minazioni della Corte Costituzionale inmerito alla
questione di legittimità costituzionale nuovamen-
te prospettata alla sua attenzione – la migliore
prova per il contribuente rimane quella documen-
tale; e, laddove ciò non sia possibile, è importan-
te che eventuali circostanze ed elementi di fatto
dedotti dal contribuente ne rendano verosimili e
convincenti
le difese, assegnando in tal modo a
semplici asserzioni la valenza di dichiarazioni at-
tendibili e credibili.
SEGUE DA PAGINA 29
Le indagini
finanziarie
Anche per l'anno 2013
saranno premiati i tre
migliorigiovaniautoridiarticolipubblicati sulno-
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