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NUMERO 209 - SETTEMBRE / OTTOBRE 2012
Questo periodico è associato
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PERIODICO BIMESTRALE DELL'ASSOCIAZIONE
DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI
CONTABILI DELLE TRE VENEZIE
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Numero chiuso l'11 febbraio 2013 - Tiratura 11.600 copie.
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IL COMMERCIALISTA VENETO
CV
IL COMMERCIALISTA VENETO
STORIA, STORIE
Paolo Lenarda
Ordine di Venezia
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Scusate, è personale
Il 6 settembre 1943
ho compiuto sei anni.
In un paese normale, sono i giorni in cui un bambino si prepara ai suoi primi
giorni di scuola. Ma nel 1943 l’Italia non era un paese normale.
Due giorni dopo è l’8 settembre 1943. È il giorno dell’armistizio. L’Italia abban-
dona l’alleanza con la Germania, accetta l’intervento
dell’America, si prepara al cambiamento.
L’Italia era piena di soldati tedeschi, che si fidavano
poco degli italiani, anche quando erano alleati. La firma
dell’armistiziomanifesta il voltafaccia dell’ Italia e l’eser-
cito tedesco diventa un nemico occupante.
Nel frattempo scatta la guerra civile. L’esercito si dis-
solve: chi va con i fascisti, chi va in montagna. Inizia la
resistenza. Io avevo sei anni e non ho fatto la prima e la
seconda elementare perché mio papà, capitano di un
esercito allo sbando, si è trovato, ritengo senza neanche
capire bene perché, dalla parte della resistenza, a capo
di un manipolo di partigiani, nella zona di Treviso.
Il mio papà non aveva lo spirito dell’eroe, era un timi-
do, forse anche un po’ incerto: era capitano dell’eserci-
to soltanto perché era l’unico laureato. Ma in alcune
situazioni bisogna assumere il ruolo che la gente pensa
tu debba assumere. Noi eravamo rimasti a Venezia con la mamma, le sue sorelle
e i cugini, in una Venezia in cui la continua interruzione del ponte lagunare non
poteva assicurare minimamente la possibilità di mangiare anche all’indomani.
Non so come sia successo, ma ad un certo punto, si forma un gruppo di famiglie
al quale si erano aggiunti alcuni zii sconosciuti e, senza sapere dove si andava,
abbiamo iniziato a vagare per le campagne di Treviso: Cison, Pieve di Soligo,
Soligo, Solighetto, un meraviglioso fienile sulle rivette.
La vita era serena. Mia mamma insegnava ai ragazzi.
Uno dei nuovi zii, il poeta ebreo Ugo Ghiron, ci raccontava storie meravigliose
incantando noi ragazzini che vivevamo questa esperienza come l’unica possibi-
le e quasi ovvia. Un’altra nuova zia, acida signorina ebrea, voleva assolutamente
che parlassimo in francese perché, anche in quella situazione, i ragazzi doveva-
no imparare: era una noia terribile.
Ogni tanto si cambiava casa. La mamma riusciva sempre a mantenere un clima
di normale serenità: le corse sui prati, la visita alle caprette, la crescita dei bachi
da seta. Sono gli unici rapporti con la vita agreste che ho
avuto nella vita.
Noi ragazzi avevamo un unico compito: non dovevamo
mai parlare, mai fare domande, mai rispondere. Io ero il
più grande e dovevo dare l’esempio.
E finalmente arriva la primavera del 1945. Ritorna papà.
Si organizza il viaggio verso Venezia. Viene recuperato
un carro, viene recuperato un cavallo, si mettono su le
poche cose che erano rimaste. Si parte. A turno le per-
sone più anziane potevano salire sul carro.
Da Solighetto verso Venezia: un’avventura.
Per me una piacevole avventura. Avevo un cavallo. Lo
aveva portato il mio papà. Dopo una notte di prepara-
tivi, alla mattina presto si parte.
Tutto va bene fino al Ponte della Priula.
Sul ponte un gruppo di uomini, con i fucili spianati, ci
blocca. Comincia una discussione: potevamo andare
avanti ma dovevamo lasciare il cavallo. Sconforto, paura, generale agitazione.
Papà va a parlare. A quasi otto anni cominciavo a capire.
Avevo intuito che c’era qualcosa di cattivo, che quegli uomini avevano fame e
volevano mangiarsi il nostro cavallo. Mia mamma si accorge del mio disagio e
mi sussurra: “Stai tranquillo, sono quelli buoni”.
E’ la prima emozione che ricordo, nella mia vita: se questi sono i buoni...
Abbandoniamo tutto, lasciamo il cavallo e ci incamminiamo a piedi con quel
poco che si poteva portare. Quando è stato possibile siamo arrivati a Venezia.
A casa. C’eravamo tutti. Anche gli zii ebrei. Da qui abbiamo ricominciato.
Pittima, ci vuole una pittima
N
essuno paga più nei
termini, in Italia.
A dire il vero c’è una nuova legge, che si applica proprio con decorrenza 1°
gennaio 2013, norma che prevede il pagamento di quanto dovuto al massi-
mo entro 60 giorni, anche da parte delleAmministrazioni Pubbliche, ma più che una
legge pare una farsa. Chi ci può credere? Che non sia il caso di ricorrere, invece,
come nei tempi antichi, alla PITTIMA?
Con questo termine in passato veniva definita, particolarmente nelle Repubbliche
Marinare di Venezia e Genova, una persona pagata dai creditori per seguire costan-
temente i propri debitori. Si trattava di una sorta di esattore, che ricordava a costoro
che dovevano saldare il debito contratto.
La pittima vestiva di rosso, affinché tutti sapessero che il perseguitato dalla pittima
era un debitore moroso. Ciò aumentava l’imbarazzo dovuto al pedinamento della
pittima. La pittima poteva anche gridare a gran voce. Il suo costante pedinamento
era anche volto a sfiancare il debitore, così che infine si decidesse a saldare il debito.
La pittima poteva anche avere diritto ad una percentuale più o meno congrua. Tanto
Genova quanto Venezia avevano capito che il debitore deve essere lasciato libero di
girare, perché possa mettere insieme i soldi che doveva, e non va richiuso in galera,
esattamente come i capitali, che fruttano se sono investiti, smaterializzati, messi in
circolo.
Nella Serenissima Repubblica la figura della pittima era reclutata tra gli emarginati
e i disagiati; il debitore pedinato non poteva nuocere a queste figure istituzionali,
pena una specifica pesante condanna. Il credito doveva essere difeso come il buon
nome della maggiore Repubblica commerciale dell’epoca. Pittima è anche successi-
vamente divenuto sinonimo di persona insistente che si lamenta sempre. In dialetto
veneziano, la frase genericamente più utilizzata per definire pitima (in questo caso
con una sola “t”) una persona è: “Ti xe proprio na pitima!” (Sei proprio uno che si
lamenta di continuo per nulla). Possiamo ricordare che Fabrizio De Andrè ha inti-
tolato una canzone dell’album “Creuza de mä”, appunto, “A’ pittima” (La pittima).
All’estero, possiamo ricordare l’esperienza spagnola. Società specializzate metto-
no alle calcagna del debitore, a seconda delle preferenza, una uomo in frac (
cobrador
in frac
), vestito come una pantera rosa o con altre maschere appariscenti. Appena
il debitore esce di casa lo segue incessantemente in tutti i luoghi pubblici o aperti al
pubblico. In questo modo vicini, amici e colleghi sono messi al corrente della loro
insolvenza, la loro immagine viene ridicolizzata pubblicamente e il loro
status
sociale messo a repentaglio. La vergogna e l’imbarazzo dovrebbe spingerli al paga-
mento.
Se anche in Italia vedremo delle maschere di questo tipo vorrà dire che la legge non
ha funzionato, e purtroppo sarà molto probabile.
Giuseppe Rebecca
(Ordine di Vicenza)